giovedì 23 marzo 2017

FILM: Moonlight

Titolo (originale): Moonlight
Regia e sceneggiatura: Barry Jenkins
Produzione: USA, 2016
Genere: drammatico
Durata: 111'
colore/sonoro
Cast: Trevante Rhodes, Ashton Sanders, Alex Hibbert, Janelle Monae, Mahershala Ali, Andre Holland, Naomie Harris, Jharrel Jerome, Jaden Piner
Tratto dall'opera teatrale "In Moonlight Black Boys look Blue" di Tarell Alvin McCraney

Opera nata dalle due geniali menti di McCraney e Jenkins che, sconosciuti ai più, si sono aggiudicati 2 premi Oscar (Miglior Film, Migliore sceneggiatura non originale) più un premio Oscar al Miglior attore non protagonista per Mahershala Ali (primo vincitore dell'Academy di religione islamica).
Vincitore anche del Golden Globe 2017 al Miglior Film Drammatico.


Nonostante in Italia non abbia avuto una distribuzione "trionfante" penso sia nell'interesse dei più ora recuperare il film che ha scalzato in modo plateale La La Land all'assegnazione del premio a Miglior Film all'ultima edizione degli Academy, qualche settimana fa.
Già ero curiosa prima, dopo la notte degli Oscar ancora di più, finalmente ieri sono riuscita a vederlo (ho dovuto fare un piccolo viaggio per trovarlo in un cinema ma va bene).

Film diviso in 3: tre atti, tre età, tre attori.
Il primo atto è "Piccolo" e vede come protagonista Chiron, bambino afroamericano che vive in un quartiere difficile di Miami, da tutti chiamato "piccolo". Abita con la madre tossica ed è anche perseguitato dai bulli. Un giorno per scappare dai suoi perseguitori si nasconde in una baracca e viene trovato dallo spacciatore Juan che lo porta a casa sua e se ne prende cura con gentilezza insieme alla sua fidanzata Teresa. I due lo trattano come un figlio, anche perché possono capire la sua condizione di vita, e così lui cresce alternandosi tra le urla della madre e l'ospitalità di Juan e Teresa.
Il secondo atto è "Chiron" e per qualche verso assomiglia al primo; diventato adolescente il protagonista continua ad alternarsi tra la casa della madre drogata e prostituta e quella di Teresa, perché purtroppo Juan non c'è più. Anche i bulli della scuola continuano a dargli il tormento, ma Chiron ha sempre il suo amico d'infanzia, Kevin, unico con il quale c'è una certa complicità. Una sera infatti tra i due ragazzi succede qualcosa, un'intesa particolare gli fa capire che tra loro potrebbe esserci più di un'amicizia. Purtroppo però il giorno seguente Kevin lo tradirà, caduto vittima dei bulli, e siccome Chiron non solo rifiuta di denunciare l'accaduto ma pure si vendica, viene arrestato.
Il terzo atto è "Black" e il protagonista ormai adulto è irriconoscibile, o meglio, si riconosce in Juan. Diventato una sua copia, spacciatore muscoloso con i denti d'oro, si è trasferito ad Atlanta per lavorare nel giro, dove anche la madre ora vive in una struttura di recupero. Contattato a sorpresa da Kevin, Chiron decide inaspettatamente di andare a trovare l'ex-amico, per un incontro fuori da ogni immaginazione.

Al di là del grande clamore che ha circondato la consegna del premio Oscar di miglior film, che ha sicuramente aumentato la pubblicità per Moonlight, sono molto contenta del premio a Miglior Sceneggiatura non originale per Jenkins e McCraney (hanno vinto anche il Satellite Award nella stessa categoria). Il drammaturgo Tarell Alvin McCraney ideò il testo teatrale "In Moonlight Black Boys Look Blue" per la sua tesi di laurea nel 2003 all'Università di Yale. Egli ha poi collaborato con il regista Barry Jenkins per la sceneggiatura del film del 2016 e l'adattamento filmico del testo è un lavoro perfetto. Il lavoro di partenza sicuramente forniva la base primaria che costituisce l'elemento vincente del film e la forza è sicuramente dovuta dal parziale carattere autobiografico di entrambi gli autori.

Moonlight è un film bellissimo ma è anche un film che tornerà utile come modello in futuro. Da tanti paragonato alla "versione nera e gay di Boyhood" (cosa con cui sono in totale disaccordo), secondo me il tratto distintivo che letteralmente "spacca" è qualcosa di cui tutti avevamo bisogno, in primis il cinema ne aveva bisogno: un film dove il fatto di essere "all black" e "a tematica LGBT" non possono essere usate come etichette. Proprio quest'anno tra i candidati agli Oscar avevamo esempi come Barriere o Il diritto di contare; senza nulla togliere a quei film è normale che il loro trattare l'argomento afroamericano in un certo modo li etichetterà come "film sui neri" e se ci pensate Moonlight non può essere paragonato a questi; idem vale per il tema LGBT: in questa pellicola non è un "tema". Finalmente le cose che devono essere trattate con normalità perché sono normali (o dovrebbero esserlo) vengono trattate con naturalezza. Non so se ci avete mai pensato ma io ci penso sempre ogni volta che leggo un libro o vedo un film che, sicuramente con le più buone intenzioni del mondo, cerca di far convincere in "modo arrabbiato" il pubblico di certe idee - idee giuste, con tutto il diritto di essere arrabbiati - ma la stessa cosa vale anche per il femminismo se ci pensate, parità vuol dire uguaglianza e uguaglianza significa trattare le persone allo stesso modo, ma non per forza tramite un'opera di denuncia (film, libro, ecc.). Non so se questa mia riflessione a ruota libera ha un senso ma per me vedere Moonlight è stato vedere realizzato il tipo di film che ci voleva nel mondo adesso.
Penso che trattare le cose con normalità sia la chiave per superare i pregiudizi e l'odio per il diverso.

Poi lasciamo stare che il confronto con Boyhood non sta in piedi, se stiamo parlando solo di crescita di un ragazzo per fasi possiamo citare altri 360 film, ma Boyhood proprio no visto che il suo tratto caratterizzante è l'utilizzare sempre lo stesso attore per 15-20 anni.

L'aspetto visivo è qualcosa di perfetto. Fotografia stupenda, colori meravigliosi e uso molto intelligente di filtri colorati con intento narrativo concreto. Sono troppo fiera del fatto che abbiano speso solo 1.5 milioni di dollari per realizzare un film così perfetto in tutti i sensi. La qualità è altissimi in ogni aspetto (forse nel suono addirittura un po' troppo esagerato) ma se pensiamo che è stato girato in soli 25 giorni, risulta incredibile.

Un altro aspetto molto interessante è la lavorazione in un ambiente piuttosto ristretto: oltre al poco tempo e al basso budget, le location erano tutti luoghi familiari per Barry Jenkins e Tarell Alvin McCraney, oltre che per la squadra della post-produzione in gran parte composta da ex compagni di studi e amici. Tutto questo ha dato a Moonlight un calore da film realizzato da persone che si conoscono, in luoghi che conoscono, raccontando una storia molto personale.
Sono certa che Moonlight non fa parte di quei "film ripicca" che hanno risposto alla mancanza di afroamericani agli Oscar dell'anno scorso, Moonlight ha vinto prima di tutto perché se lo merita più di quanto se lo meritava qualsiasi altro film nominato quest'anno (indifferentemente dal colore e dall'orientamento sessuale!!).

Ancora prima di vedere il film possiamo notare dal bellissimo poster come Chiron sia interpretato effettivamente da 3 diversi attori: Alex Hibbert (bambino), Ashton Sanders (adolescente) e Trevante Rhodes (adulto). Lasciando da parte il fatto che sono molto bravi, sono rimasta seriamente scioccata quando ho scoperto che i tre si sono conosciuti per la prima volta solo dopo la fine delle riprese! Guardandoli ero convinta che avessero fatto un qualche tipo di preparazione particolare per "accordarsi" e recitare tutti nello stesso modo, per cercare di dare unità al personaggio, e invece è qualcosa che è venuto spontaneo a tutti e 3 gli attori, incredibile! La cosa pazzesca è che fisicamente gli attori sono molto diversi, non potrebbero mai essere la stessa persona, non si assomigliano lontanamente... ma attraverso qualche tic, qualche particolare movimento degli occhi o atteggiamento tipico sono riusciti a convincerti esattamente che si trattava della stessa persona. Tre delle migliori interpretazioni dello stesso personaggio mai viste prima!!
Ho apprezzato anche Jaden Piner - Jharrel Jerome - André Holland ovvero i tre interpreti di Kevin, migliore amico di Chiron, come mi è molto piaciuto il suo personaggio.
Sicuramente anche la bellissima Janelle Monàe nei panni di Teresa è stata brava e senza dubbio il vincitore premio Oscar Mahershala Ali con Juan.
Non mi ha convinto del tutto invece proprio Naomie Harris nel ruolo della madre di Chiron, in parte per l'interpretazione, in parte per il personaggio ma anche per il lavoro di "invecchiamento" che è stato operato su di lei con "trucco e parrucco" (non l'ho trovato eccezionale).

L'adattamento cinematografico di un testo teatrale dolce ma potente, rimasto in un cassetto dal 2003, è stato la realizzazione di più di un sogno che da tempo aspettavo si concretizzasse.
Mi dispiace La La Land, sei bellissimo anche tu, ma quando Warren Beatty ha ammesso di essersi sbagliato io sono stata contenta ;)

sabato 11 marzo 2017

SERIE TV: Stranger Things

Titolo (originale): Stranger Things
Produzione: USA, 2016
Autori: Duffer Brothers
Genere: thriller, paranormale
Lingua originale: inglese
Produzione NETFLIX

Prima stagione composta da 8 episodi da 50' circa.



Arrivo un po' in ritardo rispetto alla massa nel vedere gli 8 episodi che compongono questa prima stagione uscita su Netflix nell'estate del 2016. Per vedere la seconda stagione dovremo aspettare soltanto Halloween 2017 ma l'attesa si preannuncia meritata.

Siamo a Hawkins, Indiana negli anni '80 quando un ragazzino sparisce nel nulla e subito dopo una ragazzina della sua età compare in città manifestando poteri paranormali. Sembra essere scappata da un laboratorio segreto nel quale si è appena verificato un incidente, e ora il personale di questa struttura le sta dando la caccia.
La ragazza senza nome si imbatte e trova rifugio presso 3 suoi coetanei dodicenni, i migliori amici di Will Byers, il ragazzo scomparso. Il gruppo non vuole darsi per vinto perché non crede alla morte del loro amico e sono convinto che ci sia sotto qualcosa di più.
Mike, Dustin e Lucas decidono di ospitare "Undici", come la chiamano loro, per un numero tatuato sul suo braccio. Undi si rivela particolarmente preziosa nella ricerca perché sembra sapere cosa sia capitato a Will: sarebbe rimasto intrappolato nel "sottosopra", una dimensione parallela popolata da mostri.
Nel frattempo si aprono anche le indagini per la scomparsa di Will, guidate dall'agente Hopper, il quale in accordo con la madre del ragazzo e i suoi amichetti, non crede si possa trattare di una banale morte e scopre infatti che la verità viene loro nascosta dal gruppo di scienziati del laboratorio.
Le persone che ricevono messaggi dal sottosopra sono tante: Joyce, madre di Will, ma anche Hopper, Jonathan e Nancy - rispettivamente fratello di Will e sorella di Mike, la quale ha assistito alla scomparsa della sua amica Barbara, riconducibile a quella del giovane Byers.

Attori e interpreti:
Winona Ryder - Joyce Byers (madre divorziata di Will e Jonathan Byers)
David Harbour - Jim Hopper (capo della polizia di Hawkins, anch'egli separato dalla moglie)
Finn Wolfhard - Mike Wheeler (migliore amico di Will, ospita Undici in casa, fratello di Nancy)
Millie Bobby Brown - Undici (ragazzina usata per esperimenti dal laboratorio, rapita appena nata)
Gaten Matarazzo - Dustin Henderson (soffre di sigmatismo, tiene unito il gruppo di amici)
Caleb McLaughlin - Lucas Sinclair (fa parte del gruppo di 4 amici, coraggioso e determinato)
Natalia Dyer - Nancy Wheeler (sorella maggiore di Mike, studiosa e determinata)
Charlie Heaton - Jonathan Byers (fratello maggiore di Will, solitario e silenzioso)
Cara Buono - Karen Wheeler (madre di Mike e Nancy)
Matthew Modine - Dr. Martin Brenner (responsabile del laboratorio che cerca di catturare 11)
Noah Schnapp - Will Byers (ragazzo rapito e intrappolato nel sottosopra per tutta la stagione)
Joe Keery - Steve Harrington (ragazzo popolare della scuola, fidanzato di Nancy)
Ted Wheeler e Holly Wheeler (padre e sorellina minore di Nancy e Mike)
Mr. Clarke (professore dei 4 amici, li aiuta nella ricerca dell'amico scomparso)
Lonnie Byers (padre divorziato di Will e Jonathan, torna per cercare Will)
Barbara Holland (amica di Nancy che scompare nel sottosopra)

L'intento dei Duffer Brothers era quello di ricreare la stessa atmosfera che loro da bambini avevano amato nei film e romanzi paranormali degli anni '80, prendendo ispirazione da Steven Spielberg, Stephen King e John Carpenter.
Dopo aver deciso di fondare la storia sulla ricerca di un bambino scomparso hanno creduto che basando l'esistenza della dimensione parallela su fondamenti scientifici avrebbe fatto più paura e anche in questo hanno preso a modello i vecchi classici. Inoltre hanno scelto gli anni '80 per evocare un senso di nostalgia verso forse l'ultima epoca senza una tecnologia onnipresente nelle vite di tutti ma d'altro canto con la comune paranoia legata alla guerra fredda, alla quale si collega l'esperimento del laboratorio di Hawkins.
Possiamo notare influssi da classici degli anni '80 come La cosa, Nightmare, Stand by me, Goonies, E.T. infatti, pur essendo horror non è splatter ma punta più sulla tensione.
Netflix è stata solo l'ultima di tante emittenti statunitensi alle quali i fratelli Duffer si sono rivolti; le loro perplessità riguardavano il fatto che fosse una serie indirizzata anche ad un pubblico adulto ma che avesse come protagonisti un gruppo di bambini.

Per il casting dei ragazzini gli è stata fatta recitare una scena da Stand by me, e io aggiungo: uno dei miei film preferiti. Nonostante la presenza di due colonne portanti come Winona Ryder e David Harbour, i miei interpreti preferiti sono stati i ragazzi, anche se una menzione speciale va a Millie Bobby Brown per il difficile ruolo di Undici che ha saputo interpretare magnificamente.

Ambientata in una cittadina fittizia dell'Indiana la prima stagione è stata in realtà girata a Jackson in Georgia tra novembre 2015 e marzo 2016.
Gli episodi sono stati pubblicati sulla piattaforma Netflix tutti assieme il primo giorno.
Per girare un solo episodio il tempo impiegato era di circa 11 giorni, tempo eccezionale rispetto alla media delle tempistiche delle serie tv.

Per quanto riguarda gli effetti speciali hanno deciso di non affidarsi solo al computer ma rimanendo in parte fedeli ad un'atmosfera vecchio stile hanno utilizzato animatronica, protesi, CGI, oltre anche ad un filtro particolare che rendesse l'effetto della pellicola riconoscibile nei film anni '80.

Riferimenti a Stephen King possono essere ricondotti anche al font e allo stile dei titoli di testa nella sigla, ma anche nella volontà di strutturare gli episodi come se fossero capitoli di un suo libro.

La colonna sonora - oltre a celebri brani del rock direttamente dagli anni '70 e '80, con la protagonista Should I stay or should I go dei Clash - è stata composta nei brani originali da Michael Stein e Kyle Dixon, ex membri della band synth "Survive".

venerdì 3 marzo 2017

LIBRO: Viva la vida!

Dopo "La spia" di Paulo Coelho, a gennaio ho anche letto questo libricino del quale non sapevo nulla, è stato uno di quegli acquisti a scatola chiusa che mi hanno sorpreso piacevolmente.
Quindi dopo una lettura che mi aveva convinto solo a metà sono passata a un monologo teatrale breve  ma intenso, e questa volta mi sono affidata ad un autore italiano totalmente nuovo per me.

Titolo: Viva la vida!
Autore: Pino Cacucci
Pubblicazione: 2010
Genere: monologo teatrale, biografico
Ambientazione: Messico, biografia di Frida Kahlo (1907-1954)


Nonostante questo tipo di lettura fosse qualcosa di totalmente nuovo per me (l'unico monologo teatrale che ho letto associabile a questo è Novecento di Alessandro Baricco) posso accostarlo al precedente libro che ho letto a gennaio, ovvero "La spia" di Paulo Coelho. Entrambi sono ritratti di donne che provengono da un altro paese rispetto agli autori, Coelho brasiliano ritrae Mata Hari olandese mentre Pino Cacucci italiano ritrae la Kahlo messicana.

Come anche per Mata Hari, nonostante fossi sempre stata affascinata dalla vita di queste donne, nemmeno per Frida Kahlo ho mai letto un libro totalmente dedicato a lei (fatta forse eccezione per un capitolo dedicato a lei in "Historias de mujeres" una bellissima raccolta di racconti di donne reali scritti da Rosa Montero).

Come dicevo sopra, è stato un acquisto - e quindi una lettura - impulsivo, ero ispirata dal retro di copertina e anche dalla bellissima copertina stessa. Mi hanno colpito molto anche perché ho subito capito che si trattava di qualcosa fuori dal comune, e in questo caso avevo ragione, perché mi è piaciuto moltissimo oltre ad avermi aperto gli occhi sulla storia particolare di questa pittrice.

La narrazione è composta da stralci di vita raccontati in prima persona dalla stessa Frida e, tenendo sempre conto che si tratta di un monologo teatrale, dobbiamo prendere atto del linguaggio allo stesso tempo semplice ma di forte impatto, molto evocativo.
In questo sono stata positivamente colpita dal lavoro di Cacucci perché anche non conoscendolo so che parlando di Messico era perfettamente a suo agio, masticava il suo pane quotidiano; non credo però che sia un frequente autore di testi teatrali, quindi a maggior ragione voglio dargli pieno merito per questa sua opera, per quanto breve sia.

Frida Kahlo ci racconta dal suo punto di vista la sua vita e le sue sventure, i suoi dolori e le sue gioie, le sue emozioni e i suoi sentimenti, il rapporto ambiguo con il marito Diego Rivera e con le altre persone importanti nella sua vita. C'è anche molto Messico che emerge dalle sue parole, molta "messicanità" in lei.

Anche se possono sembrare poche pagine la struttura è in realtà composta da tre parti: la prima è quella principale ed è l'effettivo monologo teatrale recitato nei panni della Kahlo, la seconda è più breve e riassume un po' il tutto da occhi esterni, facendo il punto della situazione, ma pur sempre restando nell'opera teatrale; la terza e ultima invece è composta da un paio di pagine dove chi parla è senza dubbio l'autore "a sipario chiuso".

Si nota come ogni singola parola sia stata scelta in modo soppesato e questo rende il tutto molto intenso, ma non pesante, infatti l'autore resta sempre nella sfera di linguaggio semplice e diretto, e questo fa sì che la lettura sia molto veloce. Libro che si legge in poco tempo, monologo forte e poetico insieme, in poche pagine.

lunedì 27 febbraio 2017

FILM: T2 Trainspotting

Titolo (originale): T2 Trainspotting
Regia: Danny Boyle
Produzione: UK, 2017
Genere: drammatico
Ambientazione: Edimburgo, 2016
Cast: Ewan MacGregor, Johnny Lee Miller, Ewen Bremner, Robert Carlyle, Anjela Nedyalkova
Tratto da: romanzi Trainspotting (1993) e Porno (2002) di Irvine Welsh



Il montaggio iper-cinetico di Danny Boyle che contraddistingueva la sua regia di Trainspotting (1996) è tornato a vent'anni di distanza e la vecchiaia non si fa sentire, anzi! Ho sì ritrovato l'originale dinamismo che avevo amato nel primo film, ma se possibile ancora migliorato, o meglio, modernizzato per stare al passo con i tempi e con le "mode" (sempre che di moda si possa parlare, in fatto di montaggio per film del genere).

Il tema di fondo resta invariato anche se il pretesto - la droga - non è più al centro dell'attenzione, non è più la colla che tiene uniti i protagonisti (leggete "colla" nel senso che vi pare) ma è ciò che li ha legati in passato, quindi un'ombra presente nelle vite di tutti loro, tossici ed ex-tossici.
L'azione conclusiva del primo film - Renton che scappa con i soldi, tradendo i suoi "amici" che probabilmente avrebbero fatto la stessa cosa - si conferma essere stata una scelta che avrebbe potuto toccare uno qualsiasi tra loro, eccetto forse Spud.
La vendetta e la rabbia che Begbie e Sick Boy sentono nei confronti del "traditore" Rent, non è perché sono stati traditi dal loro migliore amico - come continuano a ripetere - ma piuttosto perché quell'azione ha rovinato le loro vite che, a detta loro, sarebbero state diverse con anche solo la metà di quei soldi. Noi possiamo capire benissimo che la ragione di tutta questa rabbia sia solo il pentimento per non aver avuto loro quell'idea ed essere scappati col malloppo.

Ci sono molti dettagli che strizzano l'occhio al primo film, primo fra tutti una delle scene finali in cui Spud colpisce Begbie con un WC - quando era proprio da un gabinetto che tutto era partito nel 1996. Il cerchio si chiude quindi, ma solo in parte, perché non sappiamo per niente cosa succederà nelle vite dei quattro dopo la fine del film, eccetto che per Begbie.
Anche i numerosi riferimenti all'attualità sono ben calibrati e inseriti nel modo giusto nella storia, stando a dimostrare che in fondo dal 1996 al 2017 tante cose sono cambiate, nel 1996 non ci sarebbero state le suonerie dell'iPhone e i face-swap di Snapchat, per culminare nell'adattamento del monologo cult entrato nella storia del cinema.

I treni che passano e che danno il titolo all'opera, tornano in questo film proprio nella scena dove commemorano Tommy, l'unico fra loro che non ce l'ha fatta, anche se paradossalmente era quello meno colpito dall'eroina.
Si giunge a una resa dei conti rispetto alle colpe di Rent (la morte di Tommy) e di Sick Boy (la morte di sua figlia), che vengono finalmente portate a galla e fungono da pareggio tra i due ex-amici, o come si riferiscono l'uno all'altro: "cosiddetti amici".

Il ritorno di Renton a Edimburgo sconvolge non poco lo squallore monotono delle vite di un gruppo del quale ormai non rimane più traccia. Sick Boy gestisce il vecchio pub della zia continuando a sniffare coca e tenendosi impegnato anche nel mondo del crimine, assieme alla ragazza con cui vive, una prostituta bulgara. Begbie rimane il più violento e irrazionale, appena evaso di prigione torna a casa - dove cerca con scarso successo di riprendere il ruolo di padre - e viene doppiamente tradito anche da Sick Boy, che gli nasconde di aver "riallacciato i rapporti" con Rent, appena tornato da Amsterdam. Begbie scoprirà a sue spese di essere stato ingannato in una delle scene che ho più amato di questo T2. Begbie appare quasi "umanizzato" dalla paternità e dal discorso che fa a suo figlio prima di andarsene ancora una volta di casa, ma non per questo si redime. Prende atto della sua violenza ma rimane pur sempre Begbie. Spud è sempre stato il mio preferito, lo vediamo nel ruolo definitivo di tossico incallito, con la sua famosa faccia scheletrica, il suo tipico appartamento da drogato in un condominio da drogato, separato dalla famiglia che in un qualche momento in questi 20 anni si era creato. Nonostante sia quello messo peggio e la sua vita appaia come la più drammatica, letteralmente al limite, fra quelle dei suoi amici, l'immagine che Boyle ci propone nel 2017 è di uno Spud quasi "puro" e innocente, per quanto mi riguarda la scrittura della lettera alla moglie è stata una delle scene più commoventi viste al cinema negli ultimi anni.

Kelly McDonald, interprete di Diane, torna anche in T2 in una scena carina ma un po' decontestualizzata, messa lì solo per farci vedere che Diane esiste ancora; stessa cosa vale per il ritorno dello scrittore Irvine Welsh che torna in un cameo nella parte di Mikey Forrster.
Credo però che questo difetto sia il male minore perché il ritorno di Diane in un ruolo con più spessore sarebbe risultato ancora più forzato probabilmente.

Molto bella la colonna sonora e, come sempre, anche il dialogo di essa con il montaggio. Senza dubbio però non si arriva ad eguagliare l'effetto che aveva avuto nel '96 visto che all'epoca si trattava di una novità per cui l'impatto emozionale qui è stato minore, essendoci ormai abituati a qualcosa di questo tipo.

Fra le mie scene preferite posso citare la conversazione di Rent con il padre, al tavolo della cucina, con l'ombra proiettata sul muro che appare come quella della madre seduta a quello che era il suo solito posto. Un altra molto bella è quando vediamo Rent farsi una pera per l'unica volta in questo film, uno degli esempi di montaggio iper-cinetico con richiamo alla scena analoga del '96. E come non citare la scena finale, Renton torna nella sua stanza con l'iconica carta da parati con motivo a treni, che inizia ad allungarsi all'infinito come un tunnel dal momento in cui parte l'attacco di batteria di "Lust for life" di Iggy Pop e prodotta da David Bowie - i due musicisti simbolo del primo film, che tornano anche come omaggio da parte di Welsh - rinnovata da un estremamente adatto remix dei Prodigy.

Una scelta che paradossalmente ho apprezzato è stata l'assenza del voice over di Rent, che non appare più come quel protagonista indiscusso che era prima, o che era anche nel libro.

Una scelta molto criticata è stato l'inserimento di tante scene prese dal primo film. Erano tante, questo è vero, ma si trattava di fotogrammi di un secondo o addirittura meno, che venivano mescolati attentamente nel montaggio iper-cinetico e che quindi non disturbavano, perché invece di appesantire la trama con cose già viste ci richiamavano alla memoria scene intere senza in realtà riproporle. Lo spettatore si ricorda una determinata scena del '96 da quella frazione di secondo che non ci accorgiamo quasi di vedere.
I richiami al passato sono particolarmente importanti per il Danny Boyle del 2017, che scava ancora più a fondo inserendo presunti filmati di Renton & co. quando erano bambini. La nostalgia si sente molto ed senza dubbio una delle protagoniste del film: la percepiamo nelle scene da Trainspotting, nei filmati in stile "super8", nei ricordi sulla Edimburgo dell'infanzia di queste persone, tra anni '70 e anni '80, ma c'è molta nostalgia anche in tutti i riferimenti all'attualità. L'iPhone di quel determinato modello con l'iconica suoneria, il persistere della tradizione conservatrice inglese usata come diversivo per rubare delle carte di credito, è un chiaro riferimento a ciò che sta succedendo con la Brexit ad esempio. Danny Boyle non ha solo giocato con la nostalgia del 1996 e dell'infanzia ma anche con la nostalgia che nel futuro si avrà del 2017, perché anche T2 - come Trainspotting - entrerà nel cult e sarà visto anche a vent'anni di distanza.

sabato 25 febbraio 2017

FILM: Piccole Donne (1949)

Titolo: Piccole donne
Titolo originale: Little Women
Regia: Mervyn LeRoy
Produzione: USA, 1949
Genere: drammatico, sentimentale
Ambientazione: USA (New England), durante la guerra civile americana
Cast: June Allyson, Elizabeth Taylor, Janet Leigh, Margaret O'Brien, Mary Astor, Leon Ames
Tratto da: Piccole Donne e Piccole Donne Crescono, di Louisa May Alcott, pubblicati negli USA durante gli anni '60 dell'Ottocento


Una delle tante trasposizioni filmiche del celebre romanzo di Louisa May Alcott, letto dalle bambine di tutte le generazioni e annoverato tra i classici della letteratura americana ottocentesca.
L'autrice stessa ha sempre definito la sua opera come "dramma familiare" e questa definizione in effetti calza a pennello anche per il film, che riassume in realtà le vicende narrate in 2 romanzi: Piccole Donne (1868) e il suo seguito Piccole donne crescono (1869).

Come molte bambine prima e dopo di me, anche io da piccola ho letto questi due romanzi e fin da subito mi sono affezionata alle vicende e alle personalità delle sorelle March, identificandomi subito con due di esse in particolare, Jo (per il tratto da sognatrice) e Beth (per il tratto più introverso).
Di recente poi ho anche riletto il primo dei due romanzi - purtroppo è l'unico che possiedo, essendo le edizioni italiane in due volumi separati. Ho sempre trovato insensata questa scelta degli editori - non solo italiani - di continuare a pubblicare i due romanzi in volumi separati quando invece negli USA sono riuniti in un solo libro fin dal 1880!

Se non avete letto Piccole Donne quando eravate piccole/i (penso abbia un sapore totalmente diverso se letto per la prima volta in età adulta) vi consiglio di leggere entrambi i libri perché mi rendo conto di come la storia limitata a Piccole donne sia incompleta, motivo per cui non esiste adattamento cinematografico che si limiti alle vicende narrate nel primo romanzo.

Come accennavo sopra, questo film non è il primo né l'ultimo ad essere stato tratto dal libro della Alcott. Io conosco bene soltanto la versione del 1994 diretta da Gillian Armstrong, con l'importante contributo di Winona Ryder (nel ruolo di Jo). Esiste anche una versione precedente, diretta da George Cukor del 1933, con Katharine Hepburn che interpreta Jo; oltre anche ad una versione muta ancora precedente (1918) che purtroppo è andata perduta.
Esistono poi diverse altre trasposizioni, dalla televisione alle serie animate (tra le quali cito il teleromanzo del 1955 firmato Majano, che ha avuto anche un remake nel 1989).

Questo lungometraggio a colori incarna a pieno l'immagine colorata che Mervyn LeRoy ha scelto per adattare un'ambientazione non proprio rosea, prodotto in anni altrettanto poco colorati. Penso che ciò che colpisce di più vedendo questa pellicola siano proprio i colori, resi i veri protagonisti dell'aspetto estetico-visivo a partire dai titoli di testa che già da soli creano già un'atmosfera. Ricordiamo che all'edizione del 1950 degli Academy Award, gli scenografi e arredatori si aggiudicarono l'Oscar per la "Migliore scenografia a colori".
Per l'impatto visivo specialmente, si discosta molto dal genere che contraddistinse Mervyn LeRoy durante gli anni '30, ovvero film in bianco/nero su gangster, Grande Guerra e Grande Depressione.
Il richiamo è molto più immediato con un film del 1939 (co-prodotto da LeRoy) anche se di ben altro genere, Il mago di Oz. Negli anni '40 produsse molte pellicole di successo con attori celebri, ma poche furono quelle a colori, o per lo meno il colore non raggiunge un impatto così prevalente - e quasi prepotente - sul linguaggio visivo.

La vicenda narrata, ambientata durante la guerra di Secessione americana, pone al centro le semplici esistenze delle quattro giovani sorelle March. Ognuna ha la propria personalità, i propri problemi (spesso legati proprio ai loro caratteri per certi versi difficili), i propri amici e i propri limiti.
La finalità di questa storia, che ho percepito molto più chiaramente leggendo il libro, è educativa e di formazione; molta attenzione viene posta sulle "buone azioni" delle sorelle e un buon accento viene dato anche al rapporto con la madre. I risvolti più interessanti della storia sono quelli tratti dal secondo volume, che almeno in questa versione del 1949 vengono in gran parte risolti in pochi minuti a fine pellicola.
Nonostante dalla storia della Alcott non compare un focus così forte e delineato per una delle sorelle in particolare, il film di LeRoy punta indubbiamente l'obiettivo su Jo (anche altre trasposizioni lo fanno). Le giovani interpreti delle quattro sorelle erano fra le più amate dell'epoca e negli anni a venire: Margaret O'Brien - famosa attrice bambina, Elizabeth Taylor e Janet Leigh sulle quali non credo ci sia nulla da dire, gli emozionanti June Allyson e Rossano Brazzi, la mitica Mary Astor e naturalmente Peter Lawford - futuro membro del Rat Pack.

Molti sono i richiami agli anni 1950, l'impronta dell'anno di produzione è un marchio di fabbrica evidente, ma come è giusto tener conto anche la versione del 1994, sicuramente più cupa e realistica  mantiene sempre qualche richiamo visibile al presente della produzione. Un esempio su tutti: le pettinature inequivocabili, ottocentesca con un gusto pin-up nel primo e ottocentesco con un gusto boy-band nel secondo.

Se facessero un remake di Piccole Donne (visto che sembra essere di moda il remake negli ultimi tempi) lo andrei a vedere con molto interesse in questo caso, anche perché oggi si tenderebbe alla maggiore accuratezza storica possibile. Non guasterebbe e sarebbe anche curioso vedere gli effetti di una collaborazione britannica per un eventuale adattamento perché come a volte "ci vogliono gli americani per are un film così inglese", è vero anche il contrario.

martedì 21 febbraio 2017

FILM: 10 piccoli indiani (1945)

Titolo: Dieci piccoli indiani
Titolo originale: And Then There Were None
Regia: René Clair
Produzione: USA, 1945
Genere: giallo
Attori: Barry Fitzgerald, Walter Huston, Louis Hayward, June Duprez, Roland Young, Richard Haydn, Judith Anderson
Tratto da: romanzo omonimo di Agatha Christie del 1939


Prima pellicola tratta dal celebre romanzo giallo di Agatha Christie, che ho letto anni fa e che ho amato. In realtà però la storia la conoscevo fin da piccola perché vedere i film di 10 piccoli indiani è sempre stata una sorta di "rituale" o di "tradizione" dalla mia infanzia, fino ad oggi.
Sono quasi certa di aver visto ogni singola versione del film, compresa la recente miniserie.
Questa del 1945 è la prima realizzata, in bianco e nero, fedele in realtà più alla versione teatrale del 1943 scritta dalla Christie, specie nel finale.

Sono sicura che conoscerete già tutti la storia di fondo ma la accenno lo stesso, almeno a grandi linee.
Dieci persone che non si conoscono fra loro vengono invitate, tramite una lettera - ognuno per diversi motivi, a trascorrere un periodo in una villa remota su un'isola. Qui si ritroveranno e inizieranno a conoscersi, ma presto capiranno che c'è qualcosa di misterioso: i fantomatici coniugi Owen che li avevano invitati ma che nessuno ha mai visto di persona, non sono presenti sull'isola e a quanto pare loro invece ci sono bloccati senza possibilità di scampo.
Col passare dei giorni però iniziano ad esserci le prime vittime e la cosa si fa sempre più inquietante: come centrotavola ci sono 10 statuine che spariscono una alla volta man mano che le vittime aumentano.

La mia scena preferita? Quando i personaggi maschili si spiano a vicenda, in quell'impeccabile gioco di incastri tra stanze comunicanti, porte e macchina da presa che segue letteralmente gli attori quasi come fosse lei stessa una di loro e li stesse a sua volta spiando.

Il regista e gli attori sono tra i più amati del periodo, lo sceneggiatore Dudley Nichols è una firma di garanzia (per non parlare delle musiche di Castelnuovo-Tedesco); la produzione è sicuramente un cult per quanto mi riguarda perché nonostante io ami anche le altre versioni - ognuna per motivi diversi - questa è l'unica che riesce a dare quel "sapore" o atmosfera che ho immaginato leggendo il romanzo.
Profondamente hollywoodiano, anche al di là dei nomi presenti nel cast e crew, ogni singolo fotogramma trasuda Hollywood, persino le voci degli attori.
Ho trovato ad esempio estremamente accurata la ricostruzione storica degli anni '30 nella serie TV della BBC ma nemmeno la trasposizione più attenta nella scenografia e costumi potrà mai eguagliare le sensazioni che un film del 1945 saprà dare.

domenica 12 febbraio 2017

FILM: Miss Peregrine - La casa per ragazzi speciali

Titolo: Miss Peregrine - La casa per ragazzi speciali
Titolo originale: Miss Peregrine's Home for Peculiar Children
Regia: Tim Burton
Produzione: USA, 2016
Genere: fantastico, avventura
Ambientazione: contemporanea e anni 1943, USA e Galles
Attori: Eva Green, Asa Butterfield, Ella Purnell, Samuel L. Jackson, Judi Dench, Rupert Everett
Basato sul romanzo di Ransom Riggs del 2011 "La casa per bambini speciali di Miss Peregrine"


Miss Peregrine è stato scelto da me come ultimo film da andare a vedere al cinema nel 2016, a dicembre, come penso tante altre persone curiose di vedere questo ultimo lavoro di Tim Burton.
La mia curiosità era doppia: oltre a voler vedere se Tim Burton migliorava o peggiorava infatti, avevo letto un paio di mesi prima il libro di Ransom Riggs.

Partiamo dal presupposto che il libro è un YA e a me questo genere non fa impazzire, non lo leggo spesso ma l'ho fatto perché ero curiosa per la sua fama e perché appunto stava per uscire il film.
A ottobre infatti ho completato questa lettura e con mia sorpresa devo dire che l'ho trovata piacevole - certo, né un capolavoro, né lo consiglierei ai miei amici - però la mia reazione era: non male.
Il libro come "oggetto" ma anche la caratterizzazione dei personaggi e la descrizione dei luoghi facevano di questo romanzo un'opera dall'atmosfera piuttosto creepy, perfetto per Halloween, ma quel "creepy da inizio Novecento" non so se mi spiego (provate a cercare le fotografie d'epoca collezionate da Ransom Riggs e presenti nel libro, avrete un buon esempio).

Lasciando per ora stare il fatto che il libro è soltanto il primo di una trilogia, non mi è per ora giunta voce di un ritorno alla regia da parte di Burton per i capitoli successivi. Chissà se accadrà come per Alice in Wonderland, con il cambio alla regia?

Noi tutti sappiamo che Tim Burton da anni ormai non ci regala più un film del tutto soddisfacente, soprattutto se abbiamo presenti i suoi bei lavori del passato. Devo aggiungere però che personalmente non lo ritengo uno dei miei registi preferiti, nonostante sia molto affezionata ai suoi vecchi film che nella mia infanzia erano tra i miei preferiti.

Fin dal trailer, non ero rimasta proprio convinta, in parte per l'atmosfera molto "Disneyana" più che "Burtoniana" e poi per la scelta di Eva Green come Miss Peregrine, quando io me la immaginavo più come una vecchietta inquietante stile Tata Matilda (Emma Thompson); non che io sia una purista delle versioni originali ma secondo me il libro è stato stravolto, se non altro per l'atmosfera, oltre ad essere stato tanto banalizzato (vedi Samuel Jackson nel ruolo del cattivo "tonto").

Quindi, parlando come spettatrice che ha letto il libro, posso dire che questo film non mi ha soddisfatto perché non "tratta bene" quegli elementi interessanti che c'erano nella storia originale e contando che il romanzo non è esattamente un capolavoro letterario ma è un YA carino, Burton sarebbe stato perfettamente in grado di migliorarlo e caratterizzarlo rendendolo anche più interessante. Non posso negare il fatto però che almeno questa volta non sono rimasta delusa da Burton come tutti gli ultimi suoi film che ho visto, chissà però se sarebbe stato lo stesso con una sceneggiatura originale! Continuo a chiedermi come sarà il prossimo film di Burton con una storia originale e nel frattempo devo ancora decidere se andare avanti con questa trilogia di libri/film.