domenica 24 settembre 2017

#Venezia74 | Ex Libris

Domenica 3 settembre 2017 - quinta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

La mia quinta giornata al Festival si è conclusa con la proiezione di questo lunghissimo documentario sulla New York Library (l'incredibile sistema bibliotecario della grande mela).

La curiosità del pubblico rispetto a questo imponente documentario si percepiva nell'aria, e come non provare interesse per l'ultimo prodotto cinematografico del grande Frederick Wiseman?

















Certo, non è stato facile per tutti incastrarlo nel proprio programma giornaliero vista la durata. Personalmente ho preferito riservargli una delle mie serate, quando ormai avevo già una giornata alle spalle di code sotto il sole e la stanchezza si faceva sentire... non so se sia stata la scelta più saggia ma sono contenta di averlo fatto perché non volevo perdermelo e contro le mie aspettative (e a differenza delle due persone con cui ero entrata e che sedevano ai miei lati) sono riuscita a restare sveglia per tutto il tempo.

Non ci sono fronzoli nel montaggio, nella presentazione dei molti scorci di "vita quotidiana" del sistema più complesso di una biblioteca cittadina al mondo. Non si tratta di una banale biblioteca, c'è un interessantissimo e intrigante universo che sta dietro all'organizzazione e alla logistica, nonché ai servizi offerti agli utenti.

















I film di Frederick Wiseman sono una garanzia: sempre sobri ma altrettanto sinceri e spontanei, come un documentario che si rispetti dev'essere (tutt'altro è stato Human Flow di Ai Weiwei ad esempio). Uno dei più grandi documentaristi contemporanei viventi, ha ritratto - senza artifici e con inimitabile capacità d'osservazione - sguardi d'attualità e di realtà storiche dalla seconda metà del '900 fino al presente, tanto da aver ricevuto nel 2014 il Leone d'Oro alla carriera proprio al Lido di Venezia dove quest'anno è tornato.
Non dimentichiamo che quest'anno (2017) anche l'Academy Award ha scelto di dedicargli il Premio Oscar alla Carriera.

Il mondo del cinema in questi ultimi anni gli ha dedicato e gli sta dedicando tutti i premi più importanti perché ormai Wiseman ha quasi 90 anni ed è giusto rendergli tutti i riconoscimenti possibili finché è ancora in vita perché il suo contributo al mondo del documentario è essenziale (e non avendo ricevuto premi significativi durante la lunga carriera, è giusto ricompensarlo ora, oltre a continuarlo a ricordare in futuro) perché ogni documentarista dovrebbe conoscere la sua opera ed imparare da lui (riferimenti puramente casuali all'altro documentario in concorso quest'anno a Venezia!).

3 ore e 17 minuti possono sembrare infinitamente tanti per un documentario su una biblioteca se pensiamo che Wiseman ha prodotto pellicole da 1 ora e mezza, ma ricordiamoci anche di documentari della durata di circa 6 ore e ridimensioniamo il nostro concetto di documentario perché in questo caso più che mai il documentario è come un libro, un corposo saggio su un argomento specifico, e quindi può permettersi di durare quanto il regista ritiene giusto (entro i limiti del possibile naturalmente).

La New York Public Library è un luogo di conoscenza e di incontro tra persone, non solo attraverso i libri ma anche tramite conferenze con musicisti del calibro di Elvis Costello e Patti Smith, autorevoli giornalisti e storici tra i più grandi al mondo, concerti ed attività culturali al servizio della gente, dei cittadini newyorkesi di qualsiasi quartiere, da Manhattan fino al Bronx.

sabato 23 settembre 2017

#Venezia74 | Marvin

Domenica 3 settembre 2017 - quinta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Sezione Orizzonti

Reduce dalla proiezione mattutina di Suburbicon, ho voluto dedicarmi ad un altro film concorrente nella sezione Orizzonti. In questo caso ho scelto Marvin, l'ultima pellicola realizzata dalla regista e attrice francese Anne Fontaine, screening al quale era presente anche il cast e la regista.

Marvin ou la belle éducation - French Movie Poster (thumbnail)

In tutto e per tutto storia di formazione del protagonista Marvin Bijou (interpretato da Finnegan Oldfield) che alterna passato e presente, un po' come Moonlight (Barry Jenkins, 2016) ma in versione molto francese.
La parabola di Marvin si accosta facilmente a quella di Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000) in quanto il ragazzo vuole sfuggire da un contesto familiare e sociale non proprio roseo per diventare attore teatrale. Oltre a tutto naturalmente deve fare i conti con la propria sessualità, compito reso più difficile dal suo cognome.

Il ruolo che nel film inglese del 2000 era affidato a Julie Walters, quello di un'insegnante o nel caso di Marvin una preside scolastica, che scopre il talento dello studente e lo aiuta a spiccare il volo. Per quanto riguarda invece la sua vita da giovane adulto, la parte del mentore è interpretata da niente meno che la meravigliosa Isabelle Huppert nel ruolo di sé stessa.

L'omosessualità di Marvin e la sua difficoltà nel reagire al bullismo scolastico e all'emarginazione da parte dei coetanei, nonché alla durezza con la quale è trattato dalla famiglia non sono le uniche tematiche sociali del film (nonostante grazie ad esse ha vinto il premio Lgbt del Festival). Il riscatto sociale, riuscire finalmente a sfuggire all'arretratezza culturale della classe operaia da cui proviene, in questo caso grazie al teatro, alla recitazione e alle persone che questo nuovo ambiente gli permettono di conoscere, questi sono i temi che rendono la narrazioni del film efficace e credibile.

Il montaggio alternato che ci fa "rimbalzare" continuamente tra passato e presente aggiungono un tocco in più a questa storia di formazione che culmina poi con la prima dello spettacolo dove il fu Marvin Bijou racconta la sua parabola insieme a Isabelle Huppert, raccontando sé stesso e al tempo stesso una persona che non c'è più perché lui ormai ha cambiato nome e cambiato vita.

sabato 16 settembre 2017

#Venezia74 | Suburbicon

Domenica 3 settembre 2017 - quinta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Finalmente una giornata proficua alla Mostra del Cinema n° 74, a partire dalla proiezione mattutina di Suburbicon, sesto film con George Clooney alla regia e primo del regista sceneggiato dai fratelli Coen. Partiamo dal presupposto che se non siete particolarmente fan di uno e degli altri la visione è fortemente sconsigliata perché questa pellicola racchiude in sé il perfetto connubio di questi autori, Suburbicon è un'opera che non solo porta la loro firma ma la porta in bella vista.

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Un noir dai toni hitchcockiani è quello ambientato a Suburbicon, idilliaco quartiere della città media americana dai toni pastello che ricordano molto Edward mani di forbice. Siamo nel 1959, anno nel quale gli abitanti del vicinato rigorosamente "Wasp" si accaniscono attorno all'unica villetta abitata da gente di colore, paradossalmente l'unica famiglia davvero normale della zona.

Le vicende della famiglia Lodge potrebbero far pensare al personaggio del 1996 di William Macy in Fargo e con ragione, sono molte le situazioni che si ripetono pur con le dovute variazioni.
La verità è che i fratelli autori di entrambe le sceneggiature (e registi di Fargo) hanno tenuto nel cassetto Suburbicon fin dal 1986, dieci anni prima della loro celebre pellicola sopracitata e per ben 30 anni (!!!) prima che venisse effettivamente tirata fuori e iniziassero le riprese nel 2016.
Il progetto non era tuttavia sconosciuto ai più, infatti la regia di Clooney era stata confermata già dal 2005, anche se il cast si è formato negli ultimi tempi.

Finalmente un po' di violenza e ipocrisia tra i film selezionati per questa 74° edizione, portata sullo schermo da interpreti estremamente capaci, tra cui un interessante doppio ruolo di Julianne Moore, una brillante interpretazione del giovanissimo Noah Jupe, senza dimenticare la comparsata di Oscar Isaac per nulla scontata.

Secondo film con Matt Damon protagonista in questa edizione del Festival - dopo Downsizing (Alexander Payne) - e secondo film presentato con colonna sonora di Alexandre Desplat - dopo The Shape of Water (Guillermo del Toro).

Sono rimasta dispiaciuta quando ho constatato che Suburbicon non aveva ricevuto alcun premio al Lido di Venezia ma sono altrettanto fiduciosa di rivederlo a Oscar e Golden Globe, magari con diverse categorie in nomination. Un premio alla sceneggiatura non guasterebbe ma credo che potrebbe facilmente portarsi a casa anche qualche Academy più tecnico. Prevedo già come papabili la  scenografia, la fotografia (anche se non credo possa vincere) e una nomination in ambito sonoro.

Per la notte degli Oscar dovremo aspettare un bel po' ma intanto segnatevi l'uscita nei cinema italiani per il 14 dicembre, appuntamento d'obbligo se volete divertirvi con un film dalla trama non scontata, dialoghi e situazioni ben calibrate, humor nero, un po' di violenza ma altrettanti colori pastello.
Ancora una volta George Clooney porta sul grande schermo un'opera di grande sceneggiatura alla quale ha saputo aggiungere il suo sguardo dietro la macchina da presa che piacerà alla larga fetta di pubblico che ha già dimostrato di apprezzarlo in passato.

domenica 10 settembre 2017

#Venezia74 | Human Flow

Sabato 2 settembre 2017 - quarta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

La mia quarta giornata alla Mostra è iniziata la mattina presto con due proiezioni una di seguito all'altra nella stessa sala (la gelida e scomoda fantomatica PalaBiennale). Per fortuna era mattina perché altrimenti le condizioni non sarebbero state favorevoli a mantenere la concentrazione per ore di seguito. In particolare, prima del documentario di cui parleremo oggi, ho avuto il piacere di vedere Lean on Pete, di cui ho scritto nel precedente post.

Le mie aspettative per Human Flow purtroppo non erano molto alte perché già dal giorno prima sentivo pareri piuttosto contrastanti e onestamente le mie precedenti esperienze con l'artista e attivista cinese Ai Weiwei non sono state le migliori. Ho cercato il più possibile di approcciarmi al documentario con la mente più aperta possibile e di non lasciare che i pregiudizi avessero la meglio.

Ai Weiwei Films Refugee Crisis in over 22 countries ...

Parlare di profughi e rifugiati è importante e su questo non ci piove. Siccome questo argomento è uno tra i più scottanti al momento avrei immaginato un messaggio molto più acceso, quasi provocante, da parte dell'artista cinese. Weiwei invece ha scelto di dedicarsi alla questione dal punto di vista più generale e vasto possibile optando per un resoconto sulle migrazioni in tutto il mondo, passando di confine in confine, spaziando tra diverse cause che spingono le persone a spostarsi e talvolta a scappare. Non mi aspettavo un approccio così piatto - e davvero troppo vasto che rischia di essere dispersivo - da un uomo che ci ha dato prova di saper sorprendere le persone, che voi siate o no d'accordo con i suoi messaggi.

Parlare di profughi e rifugiati è essenziale al momento, dicevo prima. Raccontare il fenomeno delle migrazioni è invece sicuramente interessante ma dobbiamo pur sempre tener conto del fatto che la gente ha sempre migrato e sempre migrerà. Non dico che un documentario del genere sia totalmente inutile ma non ci presenta cose che già non sappiamo. Non illumina il pubblico circa aspetti più nascosti e pungenti, non suscita nella mente dello spettatore il formarsi di domande e riflessioni originali e stimolanti.

L'impressione che il pubblico di Venezia ha percepito è stata quella di una "vetrina" grazie alla quale Weiwei si sia messo in mostra, come ha sempre fatto peraltro nel corso di tutte le missioni umanitarie a cui ha partecipato. Non metto in dubbio che le sue intenzioni siano fra le migliori possibili ma non vedo perché dovremmo congratularci con lui quando ha la possibilità di fare il giro del mondo, tornare al sicuro nel suo studio di Berlino e apparire in un terzo delle inquadrature di questo suo "documento sui migranti nel mondo".

La scelta di comparire così spesso ha dato fastidio ma credo che ancor più irritante siano le situazioni in cui ciò accade. Prima lo vediamo consolare e porgere fazzoletti ad una donna che inizia a piangere. Poi lo vediamo scherzare offrendo a un profugo uno scambio di passaporti. C'era bisogno di calcare la mano su sé stesso in questo modo? Sempre nel ruolo del buon samaritano.

Lo stile documentaristico non è nulla di originale, piuttosto monotono e stucchevole - a tratti irritante a casa dell'esibizionismo del regista.

Mi scuso se mi sono troppo concentrata sulla figura del regista e poco sul contenuto del documentario ma obiettivamente questo volo d'uccello attraverso 23 paesi rischia di essere troppo dispersivo e poco efficace. A mia discolpa devo avvertirvi che se pagherete il biglietto per vedere Human Flow va tenuto conto che per metà del tempo vedrete Ai Weiwei, quindi pensateci bene perché oggigiorno di documentari di questo tipo ce ne sono diversi. Non penso che sia una brutta opera, che sia inutile o che contenga un messaggio negativo ma se volete un consiglio vi propongo Viaggio della speranza (Reise der Hoffnung, Xavier Koller, 1990) che vinse l'Oscar per il miglior film straniero e che colpisce in modo molto efficace il pubblico proprio perché sceglie di concentrarsi su una situazione più specifica.

sabato 9 settembre 2017

#Venezia74 | Lean on Pete

Sabato 2 settembre 2017 - quarta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Mi sono svegliata all'alba e ho affrontato un viaggio in vaporetto + autobus durante il quale stavo gelando per andare a vedere la primissima proiezione della giornata: Lean on Pete e, a seguire, Human Flow. Le mie aspettative per entrambi erano alte ma alla fine solo il primo film è riuscito a soddisfarle.

Ci voleva una produzione britannica per rendere su pellicola una storia così intrinsecamente americana, una vicenda che solo negli Stati Uniti avrebbe potuto prendere vita. Il regista inglese Andrew Haigh ha adattato la sceneggiatura dal romanzo La ballata di Charley Thompson (2010, titolo originale Lean on Pete) scritto da Willy Vlautin.
La pellicola annunciata nel 2015, le cui riprese si sono svolte da metà agosto a metà settembre 2016 a Portland, è stato presentato in concorso alla 74° Mostra del Cinema di Venezia.

















Charley Thompson, 15 anni, vive una situazione famigliare difficile. La madre l'ha abbandonato quand'era ancora piccolo e il padre, amorevole ma allo stesso tempo inaffidabile, non è capace di provvedere al figlio. Padre e figlio vivono in una situazione economica precaria e l'avventatezza del padre finirà per mettere la sua vita e quella di Charley (Charlie Plummer) in pericolo.
Per fortuna il ragazzo è abituato a cavarsela da solo e inizia quindi un pellegrinaggio alla Oliver Twist fra le strade e i deserti dell'America più profonda. Incontrerà molte persone durante il suo viaggio per arrivare fino a Laramie, Wyoming alla ricerca della zia perduta: reduci di guerra, vagabondi non troppo amichevoli, ma soprattutto Del e Bonnie (Steve Buscemi e Chloe Sevigny) proprietario di cavalli da corsa e rispettivo fantino. Con questi ultimi Charley entrerà per qualche tempo in sintonia ma dai quali prenderà in "eredità" colui che dà il nome all'opera, lo sfortunato cavallo Lean on Pete.

Viaggio on-the-road che racconta e segue la fuga di Charley Thompson attraverso l'America e attraverso la sua formazione. La regia e sceneggiatura di Haigh sono bilanciate ed evocative ma non sarebbero in grado di riempire la pellicola senza il sensazionale giovane protagonista Charlie Plummer che a me e molti altri ha ricordato l'indimenticabile River Phoenix (specialmente di profilo).

Probabilmente non troppo originale dal punto di vista autoriale perché tutto sommato la storia è piuttosto classica, seppur emozionante. Non credo che arriverà a sconvolgere le giurie dei più importanti premi mondiali ma senz'altro rimarrà nei cuori del pubblico.

P.S.: Mentre scrivo questa recensione siamo molto vicini al momento della verità, al 9 settembre 2017, e non avendo visto The Insult (il quale, secondo l'opinione comune, porterà il protagonista a vincere la Coppa Volpi), se dipendesse da me il premio andrebbe al giovane Charlie.


giovedì 7 settembre 2017

#Venezia74 | West of Sunshine

Venerdì 1 settembre 2017 - terza giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Sezione Orizzonti

La mia terza giornata al Festival non è stata molto proficua, soprattutto a causa dell'uragano che ha colpito il Lido per mezza giornata. L'unica proiezione che sono riuscita a vedere è stata la pellicola australiana in concorso nella Sezione Orizzonti: West of Sunshine. Oltre ad averla molto apprezzata e ad essere riuscita ad entrare in completa sintonia con i personaggi, ho anche avuto la possibilità di partecipare alla proiezione con il cast e regista in sala e di assistere ad un Q&A.

In sala erano presenti gli attori Damian Hill e Ty Perham (rispettivamente interpreti del padre e del figlio) e il regista Jason Raftopoulos, al suo primo lungometraggio con quest'opera di neanche un'ora e mezza.

Nell'arco di una giornata, Jim - padre separato - deve prendersi cura del figlio a casa per le vacanze scolastiche cercando allo stesso tempo di ripagare i debiti di gioco. L'ex-moglie, madre di Alex, non conosce le nuove abitudini di vita di Jim, invischiato tra scommesse e strozzini minacciosi. Il ragazzino non sembra particolarmente entusiasta per la giornata che gli si prospetta, in effetti la situazione di fa sempre più critica man mano che le ore passano, fino a raggiungere quel limite che costringerà Jim a prendere una decisione sulla propria vita.



La caratteristica più apprezzata di questo film è la semplicità e linearità dello svolgersi di una giornata nella vita di un padre nei guai che deve occuparsi del figlio adolescente, in questo modo riesce ad essere efficace nel portare avanti il suo messaggio in modo credibile anche grazie al - oserei dire - perfetto lavoro svolto dagli attori protagonisti.



Jim è stato abbandonato dal padre come lui ora è portato a fare con il figlio, sintomo di un disagio generazionale ritratto senza fare ricorso a retorica e morale ridondanti. Non tutta la durata della pellicola è piena di avvenimenti e spesso il ritmo ne risente ma non credo sia un difetto in quanto le misure appaiono più realistiche e percepiamo la sospensione del tempo così come la sentiremmo in prima persona. A mio parere questo non fa che accrescere ancor di più l'immersione all'interno di questa semplice storia di profonda realtà.

Una nota speciale va ai due interpreti protagonisti che nel Q&A successivo alla proiezione hanno risposto alle domande della stampa e del pubblico rivelando aspetti della loro vita privata e dell'esperienza nel calarsi nei panni di Jim e Alex.
L'attore Damian Hill è in effetti un padre per Ty Perham anche nella vita di tutti i giorni, da 8 anni infatti è suo patrigno e molte delle azioni che vediamo interpretare sullo schermo sono a tutti gli effetti parte della quotidianità dei due attori.
Memorabile la scena in cui padre e figlio si tagliano - male - a vicenda i capelli, e ancor più memorabili sono stati i commenti del regista sulle difficoltà di girare questa scena al tramonto di Melbourne così come veniva, in quanto non sarebbe stato possibile ripeterla, alla fine delle riprese. L'intera sala è sembrata molto divertita quando il giovane Ty Perham ha ammesso di essere un pessimo parrucchiere prima di ammette: "Damian invece è bravo, è lui che me li taglia solitamente, in questo caso però Jason gli ha detto di farlo senza troppa cura".


mercoledì 6 settembre 2017

#Venezia74 | The Shape of Water

Giovedì 31 agosto 2017 - seconda giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Dopo essermi dedicata alla versione restaurata per il 40° anniversario di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ho utilizzato tutto il tempo che mi restava fino alla sera per mettermi in coda e sperare di riuscire ad entrare alla proiezione in Sala Grande di The Shape of Water. Non so ancora come io ci sia riuscita ma oltre ad entrare ho avuto un posto in prima fila centrale.

Vedere il film in anteprima assoluta, sapendo che tra il pubblico c'erano il regista Guillermo del Toro, le attrici Sally HawkinsOctavia Spencer e l'attore Richard Jenkins - nonché svariati altri membri della crew - è stata senza ombra di dubbio un'esperienza irripetibile che ad oggi non sono riuscita a replicare (nonostante ci abbia provato).

Marzo 2016: il film viene annunciato, agosto 2016: iniziano le riprese, 6 novembre: le riprese finiscono, 19 dicembre: Alexandre Desplat (anch'egli presente in sala) si occuperà della colonna sonora, 19 luglio 2017: diffuso il trailer, 31 agosto: proiezione alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, 8 dicembre: distribuzione nelle sale statunitensi.

Queste sono le date salienti di questo thriller ambientato durante la Guerra Fredda nel quale il sapore di favola prevale sulla trama di spionaggio. Il pubblico era entusiasta e il cast con lui, anche se a qualche giorno (e proiezione) di distanza mi sento di dire che non sarà lui a portarsi a casa il Leone d'Oro, anche se possiamo tranquillamente aspettarci di rivederlo alla notte degli Oscar 2018.

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La cifra horror/fantasy che contraddistingue il celebre regista messicano, che qui figura anche come co-sceneggiatore e co-produttore, viene riconfermata dalla sua nuova pellicola, che similmente a Il labirinto del fauno (2006) ci presenta una favola inquietante su uno sfondo storico preciso: gli anni della Guerra Fredda, ossia l'America degli anni sessanta.
Sally Hawkins è Elisa, una ragazza muta e solitaria che convive con il migliore amico interpretato da Jenkins. Una storia di discriminazione derivata dalla diversità è quella portata sullo schermo da Del Toro: la disabilità fisica di Elisa, l'omosessualità del personaggio di Jenkins, la questione razziale che tocca Zelda (migliore amica e collega di Elisa, interpretata da Octavia Spencer) e anche altre impiegate delle pulizie (mestiere che sottintende una certa discriminazione), ma anche la donna nei confronti del maschilismo e, ciliegina sulla torta, la "creatura" interpretata da Doug Jones.

Elisa e Zelda puliscono i pavimenti di un laboratorio governativo quando si imbattono in una creatura misteriosa tenuta top-secret dal perfido capo interpretato da Michael Shannon. Nulla di originale e sconvolgente per quanto riguarda la trama inserita nel filone "spionaggio della Guerra Fredda" ma non potrete fare a meno di commuovervi - o almeno addolcirvi - dalle note delicate e malinconiche di una storia di diversità e venire a patti con il proprio destino.

Quest'anno a Venezia sono in concorso parecchi film forti e cinici, questo non è uno di quelli. The Shape of Water è una pellicola estremamente delicata realizzata da un regista sapiente che non ha perso nemmeno per un attimo l'idea che aveva in mente ed è riuscito a portarla avanti in maniera equilibrata dall'inizio alla fine, aggiungendo naturalmente la sua firma con un'atmosfera unica di realismo magico, caro alla sua area di provenienza.

Forse non l'opera più sconvolgente di Guillermo Del Toro, forse non otterrà una valanga di premi, ma sarà sicuramente apprezzato dai più, sarà sempre e comunque capace di emozionare la gente, conta su un cast meraviglioso, una fotografia straordinaria e una colonna sonora magica.

lunedì 4 settembre 2017

#Venezia74 (Restauri) | Incontri ravvicinati del terzo tipo

Giovedì 31 agosto 2017 - seconda giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Sezione Classici Restaurati

La mia seconda giornata al festival è stata piuttosto proficua per quanto riguarda la sera, tuttavia ho passato anche un pomeriggio interessante grazie al primo film della rassegna Classici Restaurati che si svolge come ogni anno in Sala Giardino. Era proprio qui che esattamente un anno fa ho visto per la prima volta Ventesimo Secolo (Howard Hawks, 1934) e me ne sono innamorata.

Vedere i grandi classici del passato al cinema è un'esperienza purtroppo non frequente ma che cerco di sfruttare non appena mi si presenta l'occasione. Un film come Ventesimo Secolo non è di facile reperibilità né online né su DVD, eppure non è questa la vera ragione per cui ho deciso di replicare l'esperienza anche quest'anno. Incontri ravvicinati del terzo tipo è talmente diffuso che l'avrei potuto comodamente recuperare in qualsiasi momento ma ho preferito invece aspettare il 31 agosto per godermi la visione su uno schermo di dimensioni adatte, con l'audio adatto, in versione appena restaurata e perché no, con l'atmosfera giusta di una sala pienissima ad uno dei maggiori festival cinematografici mondiali.

La discussione su "schermo del tablet vs. schermo del cinema" emerge di tanto in tanto - un po' più di frequente se sei un forte sostenitore del secondo tipo di supporto - e a tal proposito volevo lasciarvi il link di un video dove David Lynch esprime perfettamente questo concetto, commentandolo "Get real"!    ( https://www.youtube.com/watch?v=wKiIroiCvZ0&feature=youtu.be )

Lasciando ora da parte questa discussione (sulla quale potrei andare avanti e oltre) passiamo ora al film in sé, perché - lo confesso - questa era la prima volta che lo vedevo. Chi di noi non è cresciuto con i film di Steven Spielberg dagli anni '70-'80 a questa parte? Persino io negli anni '90-primi 2000 ho sempre visto e rivisto le sue pellicole, alle quali sono ormai affezionata, eppure con questo non era mai capitata l'occasione.


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Correva l'anno 1977 quando Close Encounters (of the Third Kind) uscì nelle sale statunitensi, 40 anni dopo, nel 2017 la versione restaurata viene proiettata in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, in occasione dell'importante anniversario.

Terzo lungometraggio scritto e diretto da Steven Spielberg valse due premi Oscar nel 1978 (Miglior fotografia, Miglior montaggio sonoro), il David di Donatello lo stesso anno come Miglior film straniero, oltre che al BAFTA nel 1979 per la Miglior scenografia. Dieci anni fa, in occasione del 30° anniversario la pellicola fantascientifica venne selezionata per la preservazione nel National Film Registry presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

La struttura narrativa è piuttosto classica, una vicenda di gente comune che inizia ad entrare inspiegabilmente in contatto con gli extra-terrestri e che alla fine si risolverà per il meglio. Quasi un preludio ad un'idea che poi sarà sviluppata in un film interamente dedicato, E.T. (1982), ossia l'innocenza e il carattere tutto sommato innocuo di queste creature aliene agli occhi di Spielberg. Intenzionalmente interessato a distaccarsi dalla pericolosa minaccia aliena che pervade la fantascienza degli anni '50 e '60, agli spettatori di oggi l'approccio di Spielberg ricorderà subito quello di Villeneuve nel recente Arrival.

L'intento di dare vita ad una storia semplice ma d'effetto è stata confermata dal regista stesso che, reduce dall'enorme successo di Lo Squalo (1975), godeva di ampi margini creativi ed economici grazie alla Columbia. Collaborarono come consulenti perfino la NASA, la U.S. Air Force e l'astronomo e ufologo statunitense J. Allen Hynek, fonte d'ispirazione per il soggetto del film.

Cast notevole ma non eccessivamente ostentato composto dal protagonista Richard Dreyfuss e la sua spalla Melinda Dillon, rispettivamente padre di famiglia e madre single che ricevono messaggi dagli alieni. Interessante la partecipazione di Francois Truffaut nei panni dello scienziato e ricercatore francese che porta avanti gli studi in materia di UFO. Memorabili anche i personaggi dell'aiutante ricercatore di Bob Balaban e l'esilarante moglie di Dreyfuss, Teri Garr. Il volto più simbolico tuttavia credo appartenga al giovanissimo Cary Guffey, figlio della Dillon, rapito dalle misteriose entità.

Si nota la somiglianza degli alieni con la figura di E.T. anche se forse meno definiti, si tratta in entrambi i casi dello splendido lavoro di Carlo Rambaldi, noto effettuata italiano.
Altro aspetto iconico del film è sicuramente la colonna sonora di John Williams, eterno collaboratore di Spielberg, a maggior ragione se pensiamo all'importanza primaria che la musica ha come mezzo di comunicazione universale nel vero senso del termine!

sabato 2 settembre 2017

#Venezia 74 | First Reformed

Mercoledì 30 agosto 2017 - prima giornata alla Mostra del Cinema di Venezia

Nonostante First Reformed sia stato presentato il giorno successivo, sono riuscita a sgattaiolare alla proiezione anticipata della stampa e questo è stato un bene perché prima della proiezione ufficiale ho potuto poi dedicarmi al red carpet e fotografare i protagonisti Ethan Hawke e Amanda Seyfried.


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Il tema della redenzione così caro al regista americano Paul Schrader riemerge con tutta la forza in questa sua pellicola del 2017, per la quale figura anche come sceneggiatore.
Incredibile come la rabbia che provano i personaggi arrivi al pubblico senza perdere intensità nonostante non sfoci in violenza visibile sullo schermo (se non forse verso la fine, ma a livelli piuttosto contenuti).
Gli ampi spazi vuoti, interni ed esterni, gli ambienti spogli e le luci fredde avvolgono a loro modo il tormento di padre Toller (Ethan Hawke) spaziando dalla sua abitazione a fianco alla chiesa, alla storica chiesa stessa - la "First Reformed" appunto - passando per la villetta dei coniugi Mensana e arrivando agli spazi vastissimi ma altrettanto vuoti dei quartieri generali di un'organizzazione religiosa.
Michael Mensana è un attivista ecologista radicale, all'apparenza non violento, i cui comportamenti recenti stanno preoccupando la moglie Mary (Amanda Seyfried), tanto da spingerla a cercare aiuto proprio da padre Toller. Il suicidio di Michael sarà la goccia che farà traboccare il vaso della rabbia repressa del reverendo, accumulata in seguito ad una vita passata sotto la pressione di una famiglia di tradizione militare, dalla sua stessa esperienza nell'esercito e dalla morte di suo figlio in guerra, motivo peraltro della fine del suo matrimonio.

La coppia dei coniugi Mensana porta alla nostra attenzione una dicotomia essenziale dell'animo umano - entrambi sostengono fermamente la causa in cui credono ma la differenza tra loro (che porterà alla morte Michael) è l'istinto di autodistruzione di lui contro la preservazione della vita a tutti i costi di lei.

Ulteriore tematica solo in apparenza provocatoria è quella velata del terrorismo in chiave cristiana, solo di passaggio, per dimostrare come non sia questo l'obiettivo verso il quale il regista vuole puntare bensì un altro tipo di terrorismo, quello interiore nella vita di un uomo tormentato.

Il sound ambient oscuro della colonna sonora riesce ad essere allo stesso tempo opprimente e liberatorio, opera del musicista gallese Brian Williams - meglio conosciuto come Lustmord - già avvezzo alla composizione di musica da film fin dagli anni '90.

Durante la sequenza quasi mistica dei protagonisti che "volano" attraverso disparati scenari l'immagine raggiunge un connubio con la musica particolarmente straniante, sembra di fluttuare in solitudine nello spazio cosmico mentre stiamo seduti su una poltrona della sala di proiezione con qualche centinaio di persone attorno a noi.


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venerdì 1 settembre 2017

FILM: Elle

Titolo (originale): Elle
Produzione: Francia, 2016
Regista: Paul Verhoeven
Genere: thriller, drammatico
Attrice protagonista: Isabelle Huppert
Soggetto: romanzo del 2012 "Oh..." di Philippe Djian


Recupero solo ora questa pellicola presentata a Cannes 2016 e distribuita nelle sale italiane a fine marzo, a un anno dall'uscita nei cinema francesi.
Nei primi mesi di quest'anno si era molto discusso di Elle in seguito alla vincita come Miglior film straniero ai Golden Globes e alla doppia nomination per Isabelle Huppert come miglior protagonista - agli Oscar e Golden Globes - vinta nel secondo caso.

Si tratta del primo film di produzione francese per Verhoeven, infatti inizialmente sarebbe dovuta essere una produzione statunitense con un'attrice protagonista di grido; solo in un secondo momento il regista decise di spostare la produzione in Francia anche perché il suo stile esplicito e le sue tematiche di erotismo e violenza con echi a Basic Instinct non l'avrebbero passata liscia negli USA.

Volendo definirlo con un'etichetta di genere possiamo chiamarlo "thriller psicologico" perché gran parte della trama ruota attorno alle reazioni e alle conseguenze che uno stupro a inizio pellicola hanno sulla vita della protagonista, una donna francese di mezza età di nome Michéle Leblanc. Una protagonista nel vero senso della parola, con un carattere forte tale da prevalere su quello di chi le sta intorno. Una madre indipendente con gusti amorosi fuori dal comune, un "padre-mostro" che si trova in carcere da quando lei era bambina, un ex marito poco degno di nota e un figlio buono a nulla.

Dopo molti rifiuti da parte di molte star di richiamo, nel 2014 Isabelle Huppert firma il contratto per interpretare Michéle Leblanc, personaggio che aveva amato e col quale provava affinità fin da quando lesse il romanzo di Djian del 2012.

Le riprese si sono svolte nell'arco di 10 settimane a partire dal 10 gennaio 2015 a Parigi, con alcuni disagi e imprevisti a causa degli attentati che avevano luogo in quel periodo nella capitale francese.

Verhoeven è un autore a tutto tondo e in questo suo ultimo film ha dimostrato di aver messo tanto di se stesso, a partire dall'impronta nella messa in scena, nello storyboard e altre fasi cruciali della produzione.

La colonna sonora è opera della compositrice inglese pluripremiato Anne Dudley (il cui ultimo lavoro era stato al film-musical Les Miserables nel 2012).

Le poche critiche negative da parte del pubblico si sono principalmente concentrate sull'anti-femminismo della pellicola, in riferimento alla mancata denuncia dello stupro da parte della protagonista, immagino. Ciò non è sufficiente a etichettare il film come anti-femminista perché credo sia abbastanza evidente che le figure forti con un carattere predominante in questa storia siano proprio le donne. Non sono riuscita a trovare nessun elemento concreto che alluda ad una posizione inferiore della donna. Michele e sua madre hanno un carattere forte, sono indipendenti e vivono la loro vita sessuale e - nel primo caso - lavorativa come la vivrebbe un uomo (non nel senso di mascolinizzare la donna ma liberarla dai soliti stereotipi che affollano i soliti personaggi al cinema). Un ulteriore punto interessante è il fatto che spesso le figure femminili più emancipate in campo lavorativo/sessuale/intellettuale... siano donne giovani, mentre qui Michele e sua madre sono donne di mezza età e di età avanzata, credo che le emancipi non solo in quanto donne ma anche per la loro età.
Persino Anna, l'amica di Michele, e la stessa compagna del figlio, sono tutte figure femminili molto interessanti. Trovo che la scelta di contrapporre la personalità del figlio con quella della compagna sia stata una scelta astuta, facendoli comunicare spesso anche attraverso Michele stessa.
Ancora più importante però è il fatto che tutto ciò non sia lo scopo del film, non sia l'obiettivo ultimo perché sono tutti elementi che vengono inseriti in un thriller psicologico (o comunque in una storia che sta in piedi da sola anche se questi elementi non ci fossero). Trovo che alla fine sia proprio questo l'aspetto più importante - motivo per il quale avevo anche apprezzato moltissimo Moonlight che riesce a trattare tematiche razziali e di classe sociale pur non rendendole il fulcro della questione (facendole sembrare magari forzate).