Martedì 5 settembre 2017 - settima giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Dopo una mattinata deludente con il film fuori concorso Woodshock, la mia settima giornata al Lido è decisamente migliorata con la visione dei primi due episodi di Wormwood (di cui parleremo più avanti), per finire verso sera sono approdata a questo evento speciale a tema Michael Jackson!
L'evento comprendeva la proiezione del videoclip completo di Michael Jackson's Thriller in versione restaurata 3D, diretto nel 1983 da John Landis, della durata di 14 min.
Inutile ricordare come questo iconico videoclip sia entrato nella cultura popolare e nell'immaginario comune, tanto da essere più volte definito come il videoclip più influente della musica pop di tutti i tempi. Non va tralasciato che John Landis era presente a Venezia74 perché svolgeva il compito di presidente di giuria, quindi questo evento speciale è stato anche un tributo a lui in quanto regista ma soprattutto in questo caso uno dei primi registi affermati ad essersi prestato per lavorare anche nel campo del videoclip musicale, che in questo caso sembra quasi più puntare su un vero e proprio cortometraggio horror-musicale.
Michael Jackson fu ispirato dopo aver visto il celebre film di Landis Un lupo mannaro americano a Londra (1981) e il regista accettò. Altre figure di tutto rispetto hanno partecipato al progetto: il coreografo Michael Peters - già collaboratore di Jackson in precedenti videoclip, il mitico truccatore Rick Baker che ha svolto un'impresa titanica nel creare il look dettagliato di ogni comparsa ma soprattutto per un'opera di ingegneria vera e propria che è stata la "trasfigurazione" del protagonista in un'epoca nella quale doveva essere tutto ancora realizzato a mano, ultimo ma non ultimo Elmer Bernstein - sì, avete capito bene, fu proprio uno dei compositori più affermati di tutta Hollywood a scrivere le musiche incidentali. Nel caso qualcuno se la fosse dimenticata abbiamo anche l'ouverture della voce terrificante di Vincent Price.
La proiezione è stata poi seguita dal Making of opera di Jerry Kramer (della durata di 45 min circa).
Vedere questo documentario dopo aver gustato l'esperienza unica del restauro in 3D del videoclip è stato il modo migliore per concludere la giornata. Ricordare Michael Jackson, anche nel 2017 attraverso le parole di Landis che era presente, fa sempre bene. Evento particolare e perfetto nel suo inserimento alla Mostra del Cinema, anche a ricordarci che il videoclip è pur sempre un cortometraggio, specie se realizzato da un pioniere e maestro come John Landis.
mercoledì 20 dicembre 2017
venerdì 17 novembre 2017
#Venezia74 | Woodshock
Martedì 5 settembre 2017 - settima giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Fuori concorso
Siamo arrivati finalmente a parlare dei film che ho avuto occasione di vedere alla mia settima giornata alla mostra (dai che abbiamo quasi finito!). Il primo del giorno è stato Woodshock, opera prima delle sorelle Kate e Laura Mulleavy, fashion designer che nel 2005 hanno fondato il marchio d'abbigliamento Rodarte.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=T435AkddkKM
Vedendo questo trailer lo potremmo scambiare per un blando videoclip musicale, per uno spot indie-wannabe creato dalle sorelle per promuovere il loro marchio o al limite per il solito e prevedibile cortometraggio di laurea di un qualsiasi studente di cinema americano.
Fuori concorso
Siamo arrivati finalmente a parlare dei film che ho avuto occasione di vedere alla mia settima giornata alla mostra (dai che abbiamo quasi finito!). Il primo del giorno è stato Woodshock, opera prima delle sorelle Kate e Laura Mulleavy, fashion designer che nel 2005 hanno fondato il marchio d'abbigliamento Rodarte.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=T435AkddkKM
Vedendo questo trailer lo potremmo scambiare per un blando videoclip musicale, per uno spot indie-wannabe creato dalle sorelle per promuovere il loro marchio o al limite per il solito e prevedibile cortometraggio di laurea di un qualsiasi studente di cinema americano.
Esteticamente curato, non c'è nulla da dire, ma si tratta di effetti visti e rivisti, perfettamente in linea con quella corrente molto in voga adesso, così pretenziosamente "alternativa" da risultare banale e ripetitiva. Ci fa piacere sapere che un'attrice del calibro di Kristen Dunst si sia offerta per un progetto del genere... anche se alla fine così facendo non ha di certo dimostrato nulla di nuovo, sfido chiunque a non avere un deja-vu con un qualsiasi film della Coppola.
Sofia Coppola non è l'unica - forse troppo - evidente influenza per le due neo-registe, anche se grazie all'attrice protagonista è la più ovvia. Una vicenda che sarebbe potuta essere interessante se trattata con dovuta originalità si limita ad essere puro esercizio formale. Allegorie scialbe, primi piani quasi snervanti sulle espressioni sempre uguali della protagonista,
Come riassumerlo in due parole...vediamo, Double Exposure. Nulla da dire per quanto riguarda lo sperimentalismo visivo - a parte il fatto che qualsiasi giovane film-maker dalle pretese indie-altrernative farebbe le medesime scelte con lo stesso risultato - ma è abbastanza per essere presentato ad un Festival come quello di Venezia, seppur fuori concorso?
domenica 12 novembre 2017
#Venezia74 | Three Billboards outside Ebbing, Missouri
Lunedì 4 settembre 2017 - sesta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Dopo La Villa (Robert Guédiguian) visto alle 8.30 di mattina della mia sesta giornata al Lido, mi sono rivolta alla comoda Sala Grande per una delle proiezioni che attendevo di più e che si è rivelata alla fine essere poi l'opera che più mi ha colpito in concorso a Venezia74.
Ebbene, eleggo a miglior film di questa edizione del Festival questa pellicola statunitense di quel geniale regista e sceneggiatore britannico/irlandese che è Martin McDonagh. Una decina di anni fa aveva vinto l'Oscar per il miglior cortometraggio ma Tre manifesti ad Ebbing, Missouri (questo sarà il titolo italiano, per cui l'uscita è prevista a gennaio) è il suo terzo lungometraggio, come regista e sceneggiatore, senza contare importanti produzioni teatrali fin dagli anni '90.
Non riesco a descrivere l'emozione di poter dire di avere visto questo film, subito schizzato in cima alla lista dei miei film preferiti dell'anno e di sempre, all'anteprima mondiale - ovvero la mattina stessa della proiezione ufficiale con cast e regista, che si sarebbe svolta la sera del 4 settembre. Visionare questo capolavoro di regia, interpretazione ma in primis di sceneggiatura nella Sala Grande insieme alla stampa e agli addetti ai lavori è stato un vero privilegio. Posso già dire che è mia intenzione andarlo a rivedere quando uscirà al cinema in Italia, magari anche più di una volta.
La mia prima speranza era quella che fosse la protagonista Frances McDormand a vincere la coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile ma in un secondo momento - pur rimanendo ferma nella speranza di poter tifare per lei ad Oscar e Golden Globe - ho capito che era Martin McDonagh a doversi portare a casa il premio per la miglior sceneggiatura, senza ombra di dubbio. Così la pensavano anche molti critici presenti in sala e così evidentemente ha pensato anche la giuria che ci ha dato ragione. Vittoria!
C'era molto di Fargo (F.lli Coen, 1996) in questa 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Mi riferisco naturalmente alla sceneggiatura che sapeva di riciclaggio degli stessi Coen diretta da Clooney in Suburbicon (anche se probabilmente è ante-'96 e bla, bla, bla) ma mi riferisco anche proprio all'interpretazione di questo personaggio protagonista che ha molto della Marge Gunderson, altrettanto madre e altrettanto arrabbiata. A pensarla bene ci troviamo a 20 anni di distanza da quella celebre gravidanza con un'altra maternità dove in realtà la figlia in questione non si vede, non perché debba ancora nascere ma piuttosto perché purtroppo non c'è più.
Mildred Hayes, questa la nuova identità dell'attrice, è una madre single in lutto che cerca di mascherare con rabbia e aggressività un deteriorante senso di colpa che prova per la morte della figlia adolescente Angela. L'obiettivo del suo sfogo, 7 mesi dopo la tragedia (morte in seguito a stupro e violenza), si riversa sulla polizia della città di Ebbing, Missouri perché non sono ancora stati in grado di trovare un colpevole. Secondo lei la colpa è ancora più grande perché in particolare lo sceriffo non avrebbe prestato sufficiente attenzione al caso. Sceglie come veicolo 3 imponenti spazi per manifesti giusto fuori dai confini della città.
Qui entrano in gioco altri due attori meravigliosi: Woody Harrelson (sceriffo Willoughby) e Sam Rockwell (il poliziotto Jason Dixon). Quest'ultimo è piuttosto irritabile, razzista, scorretto ma soprattutto incompetente quando invece il primo è ingiustamente messo alla gogna in un momento oltretutto difficile della sua vita, in quanto malato terminale.
La differenza nelle reazioni dei due poliziotti all'offesa la dice lunga sulle capacità di sceneggiatura e caratterizzazione magistrale di McDonagh, senza contare personaggi forse secondari ma senza i quali il film non sarebbe stato il capolavoro che è: l'unico figlio superstite di Mildred, interpretato da Lucas Hedges (sì, proprio il ragazzo di Manchester by the sea, una delle poche cose davvero interessanti uscite da quel film) o anche Red (Caleb Jones), il singolare impiegato dell'agenzia pubblicitaria della città, responsabile di aver affittato i famigerati manifesti.
Numerosi personaggi e situazioni ad effetto si susseguiranno per tutta la durata del film in un alternarsi equilibrato di risate, momenti geniali, commoventi, tragici e profondi.
Martin e suo fratello John McDonagh sono stati spesso accostati a Tarantino, in particolare per quanto riguarda l'uso della violenza nei loro film. Siamo in quel tipo di cinema esploso negli anni '90 di cui appunto anche Fargo faceva parte, assieme al buon Quentin. La violenza qui non è mai puramente fisica e sanguinaria infatti buona parte la giocano anche le parole.
Può essere che a tratti potrà sembrarvi fin troppo "battuta pronta" ma aspettate fino alla fine e vedrete. La sala cinematografica non se ne starà un attimo zitta, saranno tutti a ridere e a piangere all'unisono.
Vi prego, fatelo per me, non lasciatevelo scappare!
Dopo La Villa (Robert Guédiguian) visto alle 8.30 di mattina della mia sesta giornata al Lido, mi sono rivolta alla comoda Sala Grande per una delle proiezioni che attendevo di più e che si è rivelata alla fine essere poi l'opera che più mi ha colpito in concorso a Venezia74.
Ebbene, eleggo a miglior film di questa edizione del Festival questa pellicola statunitense di quel geniale regista e sceneggiatore britannico/irlandese che è Martin McDonagh. Una decina di anni fa aveva vinto l'Oscar per il miglior cortometraggio ma Tre manifesti ad Ebbing, Missouri (questo sarà il titolo italiano, per cui l'uscita è prevista a gennaio) è il suo terzo lungometraggio, come regista e sceneggiatore, senza contare importanti produzioni teatrali fin dagli anni '90.
Non riesco a descrivere l'emozione di poter dire di avere visto questo film, subito schizzato in cima alla lista dei miei film preferiti dell'anno e di sempre, all'anteprima mondiale - ovvero la mattina stessa della proiezione ufficiale con cast e regista, che si sarebbe svolta la sera del 4 settembre. Visionare questo capolavoro di regia, interpretazione ma in primis di sceneggiatura nella Sala Grande insieme alla stampa e agli addetti ai lavori è stato un vero privilegio. Posso già dire che è mia intenzione andarlo a rivedere quando uscirà al cinema in Italia, magari anche più di una volta.
La mia prima speranza era quella che fosse la protagonista Frances McDormand a vincere la coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile ma in un secondo momento - pur rimanendo ferma nella speranza di poter tifare per lei ad Oscar e Golden Globe - ho capito che era Martin McDonagh a doversi portare a casa il premio per la miglior sceneggiatura, senza ombra di dubbio. Così la pensavano anche molti critici presenti in sala e così evidentemente ha pensato anche la giuria che ci ha dato ragione. Vittoria!
C'era molto di Fargo (F.lli Coen, 1996) in questa 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Mi riferisco naturalmente alla sceneggiatura che sapeva di riciclaggio degli stessi Coen diretta da Clooney in Suburbicon (anche se probabilmente è ante-'96 e bla, bla, bla) ma mi riferisco anche proprio all'interpretazione di questo personaggio protagonista che ha molto della Marge Gunderson, altrettanto madre e altrettanto arrabbiata. A pensarla bene ci troviamo a 20 anni di distanza da quella celebre gravidanza con un'altra maternità dove in realtà la figlia in questione non si vede, non perché debba ancora nascere ma piuttosto perché purtroppo non c'è più.
Mildred Hayes, questa la nuova identità dell'attrice, è una madre single in lutto che cerca di mascherare con rabbia e aggressività un deteriorante senso di colpa che prova per la morte della figlia adolescente Angela. L'obiettivo del suo sfogo, 7 mesi dopo la tragedia (morte in seguito a stupro e violenza), si riversa sulla polizia della città di Ebbing, Missouri perché non sono ancora stati in grado di trovare un colpevole. Secondo lei la colpa è ancora più grande perché in particolare lo sceriffo non avrebbe prestato sufficiente attenzione al caso. Sceglie come veicolo 3 imponenti spazi per manifesti giusto fuori dai confini della città.
Qui entrano in gioco altri due attori meravigliosi: Woody Harrelson (sceriffo Willoughby) e Sam Rockwell (il poliziotto Jason Dixon). Quest'ultimo è piuttosto irritabile, razzista, scorretto ma soprattutto incompetente quando invece il primo è ingiustamente messo alla gogna in un momento oltretutto difficile della sua vita, in quanto malato terminale.
La differenza nelle reazioni dei due poliziotti all'offesa la dice lunga sulle capacità di sceneggiatura e caratterizzazione magistrale di McDonagh, senza contare personaggi forse secondari ma senza i quali il film non sarebbe stato il capolavoro che è: l'unico figlio superstite di Mildred, interpretato da Lucas Hedges (sì, proprio il ragazzo di Manchester by the sea, una delle poche cose davvero interessanti uscite da quel film) o anche Red (Caleb Jones), il singolare impiegato dell'agenzia pubblicitaria della città, responsabile di aver affittato i famigerati manifesti.
Numerosi personaggi e situazioni ad effetto si susseguiranno per tutta la durata del film in un alternarsi equilibrato di risate, momenti geniali, commoventi, tragici e profondi.
Martin e suo fratello John McDonagh sono stati spesso accostati a Tarantino, in particolare per quanto riguarda l'uso della violenza nei loro film. Siamo in quel tipo di cinema esploso negli anni '90 di cui appunto anche Fargo faceva parte, assieme al buon Quentin. La violenza qui non è mai puramente fisica e sanguinaria infatti buona parte la giocano anche le parole.
Può essere che a tratti potrà sembrarvi fin troppo "battuta pronta" ma aspettate fino alla fine e vedrete. La sala cinematografica non se ne starà un attimo zitta, saranno tutti a ridere e a piangere all'unisono.
Vi prego, fatelo per me, non lasciatevelo scappare!
sabato 21 ottobre 2017
#Venezia74 | La Villa
Lunedì 4 settembre 2017 - sesta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
La mia sesta giornata al Lido di Venezia è stata piuttosto breve, con soli 2 film visti, entrambi alla mattina. Per riuscire a recuperare nel poco tempo a disposizione ben due pellicole, la prima proiezione è stata quella delle 8.30 in PalaBiennale (luogo e ora fanno intuire la mia categoria di accredito) per vedere il film francese in concorso quest'anno a Venezia74 La Villa di Robert Guédiguian.
La "villa" del titolo si trova di fronte al mare in una località nei pressi di Marsiglia e appartiene ad un anziano signore. L'ictus che lo ha colpito porterà i suoi tre figli a tornare a casa e, per loro controvoglia, a riunirsi al capezzale del padre. Armand, il maggiore, è colui che più è rimasto attaccato alle radici, in effetti gestisce il ristorante di pesce che prima era stato dei genitori. Anche Joseph si aggira sulla sessantina ma la sua voglia di giovinezza non è mai passata, aspirante scrittore, ex militante di sinistra, porta con se alla Villa la fidanzata molto più giovane di lui. Infine c'è Angèle, figlia minore, celebre attrice teatrale che a Marsiglia lascia soltanto brutti ricordi, ha lasciato controvoglia la sua nuova vita che si è costruita a Parigi.
Presupposti senza dubbio essenziali, lineari, realisti. Intreccio dai risvolti personali ed esistenzialisti.
Indubbiamente ogni personaggio si trova a fare i conti con il proprio passato perché è il motivo che li ha portati ad allontanarsi. Ora però si trovano davanti ad un compito ancora più difficile: cercare di gestire il futuro, prospettiva già difficile di per sé vista la situazione presente. La componente primaria del futuro è sempre la stessa: l'inevitabile imprevedibilità. Il piccolo centro marittimo verrà scosso da eventi importanti ravvicinati, tra drammi domestici nella casa dei vicini e l'arrivo di profughi dal Mediterraneo.
La vera protagonista di questo lungometraggio è la cosiddetta "terza età" che ha effettivamente pervaso tutte le giornate della Mostra del Cinema 2017. Pensiamo alla coppia Jane Fonda - Robert Redford, pensiamo a Helen Mirren e Donald Sutherland, ma soprattutto l'iconico ritratto di Charlotte Rampling in Hannah.
L'omaggio a questa tematica passa anche attraverso la giovinezza, con un omaggio alla pellicola del 1985 del regista, Ki lo sa, con gli stessi protagonisti durante uno spensierato viaggio in macchina, giovanissimi.
Passato e futuro sono i motori che portano avanti le vite nella storia narrata da Guédiguian, con un sottofondo ad un altro tema caro al regista, la politica, che agisce nelle vicende dei protagonisti come una divinità del fato, il destino che influisce sulla vita delle persone cambiandone il corso per sempre.
La mia sesta giornata al Lido di Venezia è stata piuttosto breve, con soli 2 film visti, entrambi alla mattina. Per riuscire a recuperare nel poco tempo a disposizione ben due pellicole, la prima proiezione è stata quella delle 8.30 in PalaBiennale (luogo e ora fanno intuire la mia categoria di accredito) per vedere il film francese in concorso quest'anno a Venezia74 La Villa di Robert Guédiguian.
La "villa" del titolo si trova di fronte al mare in una località nei pressi di Marsiglia e appartiene ad un anziano signore. L'ictus che lo ha colpito porterà i suoi tre figli a tornare a casa e, per loro controvoglia, a riunirsi al capezzale del padre. Armand, il maggiore, è colui che più è rimasto attaccato alle radici, in effetti gestisce il ristorante di pesce che prima era stato dei genitori. Anche Joseph si aggira sulla sessantina ma la sua voglia di giovinezza non è mai passata, aspirante scrittore, ex militante di sinistra, porta con se alla Villa la fidanzata molto più giovane di lui. Infine c'è Angèle, figlia minore, celebre attrice teatrale che a Marsiglia lascia soltanto brutti ricordi, ha lasciato controvoglia la sua nuova vita che si è costruita a Parigi.
Presupposti senza dubbio essenziali, lineari, realisti. Intreccio dai risvolti personali ed esistenzialisti.
Indubbiamente ogni personaggio si trova a fare i conti con il proprio passato perché è il motivo che li ha portati ad allontanarsi. Ora però si trovano davanti ad un compito ancora più difficile: cercare di gestire il futuro, prospettiva già difficile di per sé vista la situazione presente. La componente primaria del futuro è sempre la stessa: l'inevitabile imprevedibilità. Il piccolo centro marittimo verrà scosso da eventi importanti ravvicinati, tra drammi domestici nella casa dei vicini e l'arrivo di profughi dal Mediterraneo.
La vera protagonista di questo lungometraggio è la cosiddetta "terza età" che ha effettivamente pervaso tutte le giornate della Mostra del Cinema 2017. Pensiamo alla coppia Jane Fonda - Robert Redford, pensiamo a Helen Mirren e Donald Sutherland, ma soprattutto l'iconico ritratto di Charlotte Rampling in Hannah.
L'omaggio a questa tematica passa anche attraverso la giovinezza, con un omaggio alla pellicola del 1985 del regista, Ki lo sa, con gli stessi protagonisti durante uno spensierato viaggio in macchina, giovanissimi.
Passato e futuro sono i motori che portano avanti le vite nella storia narrata da Guédiguian, con un sottofondo ad un altro tema caro al regista, la politica, che agisce nelle vicende dei protagonisti come una divinità del fato, il destino che influisce sulla vita delle persone cambiandone il corso per sempre.
domenica 24 settembre 2017
#Venezia74 | Ex Libris
Domenica 3 settembre 2017 - quinta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
La mia quinta giornata al Festival si è conclusa con la proiezione di questo lunghissimo documentario sulla New York Library (l'incredibile sistema bibliotecario della grande mela).
La curiosità del pubblico rispetto a questo imponente documentario si percepiva nell'aria, e come non provare interesse per l'ultimo prodotto cinematografico del grande Frederick Wiseman?
Certo, non è stato facile per tutti incastrarlo nel proprio programma giornaliero vista la durata. Personalmente ho preferito riservargli una delle mie serate, quando ormai avevo già una giornata alle spalle di code sotto il sole e la stanchezza si faceva sentire... non so se sia stata la scelta più saggia ma sono contenta di averlo fatto perché non volevo perdermelo e contro le mie aspettative (e a differenza delle due persone con cui ero entrata e che sedevano ai miei lati) sono riuscita a restare sveglia per tutto il tempo.
Non ci sono fronzoli nel montaggio, nella presentazione dei molti scorci di "vita quotidiana" del sistema più complesso di una biblioteca cittadina al mondo. Non si tratta di una banale biblioteca, c'è un interessantissimo e intrigante universo che sta dietro all'organizzazione e alla logistica, nonché ai servizi offerti agli utenti.
I film di Frederick Wiseman sono una garanzia: sempre sobri ma altrettanto sinceri e spontanei, come un documentario che si rispetti dev'essere (tutt'altro è stato Human Flow di Ai Weiwei ad esempio). Uno dei più grandi documentaristi contemporanei viventi, ha ritratto - senza artifici e con inimitabile capacità d'osservazione - sguardi d'attualità e di realtà storiche dalla seconda metà del '900 fino al presente, tanto da aver ricevuto nel 2014 il Leone d'Oro alla carriera proprio al Lido di Venezia dove quest'anno è tornato.
Non dimentichiamo che quest'anno (2017) anche l'Academy Award ha scelto di dedicargli il Premio Oscar alla Carriera.
Il mondo del cinema in questi ultimi anni gli ha dedicato e gli sta dedicando tutti i premi più importanti perché ormai Wiseman ha quasi 90 anni ed è giusto rendergli tutti i riconoscimenti possibili finché è ancora in vita perché il suo contributo al mondo del documentario è essenziale (e non avendo ricevuto premi significativi durante la lunga carriera, è giusto ricompensarlo ora, oltre a continuarlo a ricordare in futuro) perché ogni documentarista dovrebbe conoscere la sua opera ed imparare da lui (riferimenti puramente casuali all'altro documentario in concorso quest'anno a Venezia!).
3 ore e 17 minuti possono sembrare infinitamente tanti per un documentario su una biblioteca se pensiamo che Wiseman ha prodotto pellicole da 1 ora e mezza, ma ricordiamoci anche di documentari della durata di circa 6 ore e ridimensioniamo il nostro concetto di documentario perché in questo caso più che mai il documentario è come un libro, un corposo saggio su un argomento specifico, e quindi può permettersi di durare quanto il regista ritiene giusto (entro i limiti del possibile naturalmente).
La New York Public Library è un luogo di conoscenza e di incontro tra persone, non solo attraverso i libri ma anche tramite conferenze con musicisti del calibro di Elvis Costello e Patti Smith, autorevoli giornalisti e storici tra i più grandi al mondo, concerti ed attività culturali al servizio della gente, dei cittadini newyorkesi di qualsiasi quartiere, da Manhattan fino al Bronx.
La mia quinta giornata al Festival si è conclusa con la proiezione di questo lunghissimo documentario sulla New York Library (l'incredibile sistema bibliotecario della grande mela).
La curiosità del pubblico rispetto a questo imponente documentario si percepiva nell'aria, e come non provare interesse per l'ultimo prodotto cinematografico del grande Frederick Wiseman?
Certo, non è stato facile per tutti incastrarlo nel proprio programma giornaliero vista la durata. Personalmente ho preferito riservargli una delle mie serate, quando ormai avevo già una giornata alle spalle di code sotto il sole e la stanchezza si faceva sentire... non so se sia stata la scelta più saggia ma sono contenta di averlo fatto perché non volevo perdermelo e contro le mie aspettative (e a differenza delle due persone con cui ero entrata e che sedevano ai miei lati) sono riuscita a restare sveglia per tutto il tempo.
Non ci sono fronzoli nel montaggio, nella presentazione dei molti scorci di "vita quotidiana" del sistema più complesso di una biblioteca cittadina al mondo. Non si tratta di una banale biblioteca, c'è un interessantissimo e intrigante universo che sta dietro all'organizzazione e alla logistica, nonché ai servizi offerti agli utenti.
I film di Frederick Wiseman sono una garanzia: sempre sobri ma altrettanto sinceri e spontanei, come un documentario che si rispetti dev'essere (tutt'altro è stato Human Flow di Ai Weiwei ad esempio). Uno dei più grandi documentaristi contemporanei viventi, ha ritratto - senza artifici e con inimitabile capacità d'osservazione - sguardi d'attualità e di realtà storiche dalla seconda metà del '900 fino al presente, tanto da aver ricevuto nel 2014 il Leone d'Oro alla carriera proprio al Lido di Venezia dove quest'anno è tornato.
Non dimentichiamo che quest'anno (2017) anche l'Academy Award ha scelto di dedicargli il Premio Oscar alla Carriera.
Il mondo del cinema in questi ultimi anni gli ha dedicato e gli sta dedicando tutti i premi più importanti perché ormai Wiseman ha quasi 90 anni ed è giusto rendergli tutti i riconoscimenti possibili finché è ancora in vita perché il suo contributo al mondo del documentario è essenziale (e non avendo ricevuto premi significativi durante la lunga carriera, è giusto ricompensarlo ora, oltre a continuarlo a ricordare in futuro) perché ogni documentarista dovrebbe conoscere la sua opera ed imparare da lui (riferimenti puramente casuali all'altro documentario in concorso quest'anno a Venezia!).
3 ore e 17 minuti possono sembrare infinitamente tanti per un documentario su una biblioteca se pensiamo che Wiseman ha prodotto pellicole da 1 ora e mezza, ma ricordiamoci anche di documentari della durata di circa 6 ore e ridimensioniamo il nostro concetto di documentario perché in questo caso più che mai il documentario è come un libro, un corposo saggio su un argomento specifico, e quindi può permettersi di durare quanto il regista ritiene giusto (entro i limiti del possibile naturalmente).
La New York Public Library è un luogo di conoscenza e di incontro tra persone, non solo attraverso i libri ma anche tramite conferenze con musicisti del calibro di Elvis Costello e Patti Smith, autorevoli giornalisti e storici tra i più grandi al mondo, concerti ed attività culturali al servizio della gente, dei cittadini newyorkesi di qualsiasi quartiere, da Manhattan fino al Bronx.
sabato 23 settembre 2017
#Venezia74 | Marvin
Domenica 3 settembre 2017 - quinta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Sezione Orizzonti
Reduce dalla proiezione mattutina di Suburbicon, ho voluto dedicarmi ad un altro film concorrente nella sezione Orizzonti. In questo caso ho scelto Marvin, l'ultima pellicola realizzata dalla regista e attrice francese Anne Fontaine, screening al quale era presente anche il cast e la regista.
In tutto e per tutto storia di formazione del protagonista Marvin Bijou (interpretato da Finnegan Oldfield) che alterna passato e presente, un po' come Moonlight (Barry Jenkins, 2016) ma in versione molto francese.
La parabola di Marvin si accosta facilmente a quella di Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000) in quanto il ragazzo vuole sfuggire da un contesto familiare e sociale non proprio roseo per diventare attore teatrale. Oltre a tutto naturalmente deve fare i conti con la propria sessualità, compito reso più difficile dal suo cognome.
Il ruolo che nel film inglese del 2000 era affidato a Julie Walters, quello di un'insegnante o nel caso di Marvin una preside scolastica, che scopre il talento dello studente e lo aiuta a spiccare il volo. Per quanto riguarda invece la sua vita da giovane adulto, la parte del mentore è interpretata da niente meno che la meravigliosa Isabelle Huppert nel ruolo di sé stessa.
L'omosessualità di Marvin e la sua difficoltà nel reagire al bullismo scolastico e all'emarginazione da parte dei coetanei, nonché alla durezza con la quale è trattato dalla famiglia non sono le uniche tematiche sociali del film (nonostante grazie ad esse ha vinto il premio Lgbt del Festival). Il riscatto sociale, riuscire finalmente a sfuggire all'arretratezza culturale della classe operaia da cui proviene, in questo caso grazie al teatro, alla recitazione e alle persone che questo nuovo ambiente gli permettono di conoscere, questi sono i temi che rendono la narrazioni del film efficace e credibile.
Il montaggio alternato che ci fa "rimbalzare" continuamente tra passato e presente aggiungono un tocco in più a questa storia di formazione che culmina poi con la prima dello spettacolo dove il fu Marvin Bijou racconta la sua parabola insieme a Isabelle Huppert, raccontando sé stesso e al tempo stesso una persona che non c'è più perché lui ormai ha cambiato nome e cambiato vita.
Sezione Orizzonti
Reduce dalla proiezione mattutina di Suburbicon, ho voluto dedicarmi ad un altro film concorrente nella sezione Orizzonti. In questo caso ho scelto Marvin, l'ultima pellicola realizzata dalla regista e attrice francese Anne Fontaine, screening al quale era presente anche il cast e la regista.
In tutto e per tutto storia di formazione del protagonista Marvin Bijou (interpretato da Finnegan Oldfield) che alterna passato e presente, un po' come Moonlight (Barry Jenkins, 2016) ma in versione molto francese.
La parabola di Marvin si accosta facilmente a quella di Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000) in quanto il ragazzo vuole sfuggire da un contesto familiare e sociale non proprio roseo per diventare attore teatrale. Oltre a tutto naturalmente deve fare i conti con la propria sessualità, compito reso più difficile dal suo cognome.
Il ruolo che nel film inglese del 2000 era affidato a Julie Walters, quello di un'insegnante o nel caso di Marvin una preside scolastica, che scopre il talento dello studente e lo aiuta a spiccare il volo. Per quanto riguarda invece la sua vita da giovane adulto, la parte del mentore è interpretata da niente meno che la meravigliosa Isabelle Huppert nel ruolo di sé stessa.
L'omosessualità di Marvin e la sua difficoltà nel reagire al bullismo scolastico e all'emarginazione da parte dei coetanei, nonché alla durezza con la quale è trattato dalla famiglia non sono le uniche tematiche sociali del film (nonostante grazie ad esse ha vinto il premio Lgbt del Festival). Il riscatto sociale, riuscire finalmente a sfuggire all'arretratezza culturale della classe operaia da cui proviene, in questo caso grazie al teatro, alla recitazione e alle persone che questo nuovo ambiente gli permettono di conoscere, questi sono i temi che rendono la narrazioni del film efficace e credibile.
Il montaggio alternato che ci fa "rimbalzare" continuamente tra passato e presente aggiungono un tocco in più a questa storia di formazione che culmina poi con la prima dello spettacolo dove il fu Marvin Bijou racconta la sua parabola insieme a Isabelle Huppert, raccontando sé stesso e al tempo stesso una persona che non c'è più perché lui ormai ha cambiato nome e cambiato vita.
sabato 16 settembre 2017
#Venezia74 | Suburbicon
Domenica 3 settembre 2017 - quinta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Finalmente una giornata proficua alla Mostra del Cinema n° 74, a partire dalla proiezione mattutina di Suburbicon, sesto film con George Clooney alla regia e primo del regista sceneggiato dai fratelli Coen. Partiamo dal presupposto che se non siete particolarmente fan di uno e degli altri la visione è fortemente sconsigliata perché questa pellicola racchiude in sé il perfetto connubio di questi autori, Suburbicon è un'opera che non solo porta la loro firma ma la porta in bella vista.
Un noir dai toni hitchcockiani è quello ambientato a Suburbicon, idilliaco quartiere della città media americana dai toni pastello che ricordano molto Edward mani di forbice. Siamo nel 1959, anno nel quale gli abitanti del vicinato rigorosamente "Wasp" si accaniscono attorno all'unica villetta abitata da gente di colore, paradossalmente l'unica famiglia davvero normale della zona.
Le vicende della famiglia Lodge potrebbero far pensare al personaggio del 1996 di William Macy in Fargo e con ragione, sono molte le situazioni che si ripetono pur con le dovute variazioni.
La verità è che i fratelli autori di entrambe le sceneggiature (e registi di Fargo) hanno tenuto nel cassetto Suburbicon fin dal 1986, dieci anni prima della loro celebre pellicola sopracitata e per ben 30 anni (!!!) prima che venisse effettivamente tirata fuori e iniziassero le riprese nel 2016.
Il progetto non era tuttavia sconosciuto ai più, infatti la regia di Clooney era stata confermata già dal 2005, anche se il cast si è formato negli ultimi tempi.
Finalmente un po' di violenza e ipocrisia tra i film selezionati per questa 74° edizione, portata sullo schermo da interpreti estremamente capaci, tra cui un interessante doppio ruolo di Julianne Moore, una brillante interpretazione del giovanissimo Noah Jupe, senza dimenticare la comparsata di Oscar Isaac per nulla scontata.
Secondo film con Matt Damon protagonista in questa edizione del Festival - dopo Downsizing (Alexander Payne) - e secondo film presentato con colonna sonora di Alexandre Desplat - dopo The Shape of Water (Guillermo del Toro).
Sono rimasta dispiaciuta quando ho constatato che Suburbicon non aveva ricevuto alcun premio al Lido di Venezia ma sono altrettanto fiduciosa di rivederlo a Oscar e Golden Globe, magari con diverse categorie in nomination. Un premio alla sceneggiatura non guasterebbe ma credo che potrebbe facilmente portarsi a casa anche qualche Academy più tecnico. Prevedo già come papabili la scenografia, la fotografia (anche se non credo possa vincere) e una nomination in ambito sonoro.
Per la notte degli Oscar dovremo aspettare un bel po' ma intanto segnatevi l'uscita nei cinema italiani per il 14 dicembre, appuntamento d'obbligo se volete divertirvi con un film dalla trama non scontata, dialoghi e situazioni ben calibrate, humor nero, un po' di violenza ma altrettanti colori pastello.
Ancora una volta George Clooney porta sul grande schermo un'opera di grande sceneggiatura alla quale ha saputo aggiungere il suo sguardo dietro la macchina da presa che piacerà alla larga fetta di pubblico che ha già dimostrato di apprezzarlo in passato.
domenica 10 settembre 2017
#Venezia74 | Human Flow
Sabato 2 settembre 2017 - quarta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
La mia quarta giornata alla Mostra è iniziata la mattina presto con due proiezioni una di seguito all'altra nella stessa sala (la gelida e scomoda fantomatica PalaBiennale). Per fortuna era mattina perché altrimenti le condizioni non sarebbero state favorevoli a mantenere la concentrazione per ore di seguito. In particolare, prima del documentario di cui parleremo oggi, ho avuto il piacere di vedere Lean on Pete, di cui ho scritto nel precedente post.
Le mie aspettative per Human Flow purtroppo non erano molto alte perché già dal giorno prima sentivo pareri piuttosto contrastanti e onestamente le mie precedenti esperienze con l'artista e attivista cinese Ai Weiwei non sono state le migliori. Ho cercato il più possibile di approcciarmi al documentario con la mente più aperta possibile e di non lasciare che i pregiudizi avessero la meglio.
Parlare di profughi e rifugiati è importante e su questo non ci piove. Siccome questo argomento è uno tra i più scottanti al momento avrei immaginato un messaggio molto più acceso, quasi provocante, da parte dell'artista cinese. Weiwei invece ha scelto di dedicarsi alla questione dal punto di vista più generale e vasto possibile optando per un resoconto sulle migrazioni in tutto il mondo, passando di confine in confine, spaziando tra diverse cause che spingono le persone a spostarsi e talvolta a scappare. Non mi aspettavo un approccio così piatto - e davvero troppo vasto che rischia di essere dispersivo - da un uomo che ci ha dato prova di saper sorprendere le persone, che voi siate o no d'accordo con i suoi messaggi.
Parlare di profughi e rifugiati è essenziale al momento, dicevo prima. Raccontare il fenomeno delle migrazioni è invece sicuramente interessante ma dobbiamo pur sempre tener conto del fatto che la gente ha sempre migrato e sempre migrerà. Non dico che un documentario del genere sia totalmente inutile ma non ci presenta cose che già non sappiamo. Non illumina il pubblico circa aspetti più nascosti e pungenti, non suscita nella mente dello spettatore il formarsi di domande e riflessioni originali e stimolanti.
L'impressione che il pubblico di Venezia ha percepito è stata quella di una "vetrina" grazie alla quale Weiwei si sia messo in mostra, come ha sempre fatto peraltro nel corso di tutte le missioni umanitarie a cui ha partecipato. Non metto in dubbio che le sue intenzioni siano fra le migliori possibili ma non vedo perché dovremmo congratularci con lui quando ha la possibilità di fare il giro del mondo, tornare al sicuro nel suo studio di Berlino e apparire in un terzo delle inquadrature di questo suo "documento sui migranti nel mondo".
La scelta di comparire così spesso ha dato fastidio ma credo che ancor più irritante siano le situazioni in cui ciò accade. Prima lo vediamo consolare e porgere fazzoletti ad una donna che inizia a piangere. Poi lo vediamo scherzare offrendo a un profugo uno scambio di passaporti. C'era bisogno di calcare la mano su sé stesso in questo modo? Sempre nel ruolo del buon samaritano.
Lo stile documentaristico non è nulla di originale, piuttosto monotono e stucchevole - a tratti irritante a casa dell'esibizionismo del regista.
Mi scuso se mi sono troppo concentrata sulla figura del regista e poco sul contenuto del documentario ma obiettivamente questo volo d'uccello attraverso 23 paesi rischia di essere troppo dispersivo e poco efficace. A mia discolpa devo avvertirvi che se pagherete il biglietto per vedere Human Flow va tenuto conto che per metà del tempo vedrete Ai Weiwei, quindi pensateci bene perché oggigiorno di documentari di questo tipo ce ne sono diversi. Non penso che sia una brutta opera, che sia inutile o che contenga un messaggio negativo ma se volete un consiglio vi propongo Viaggio della speranza (Reise der Hoffnung, Xavier Koller, 1990) che vinse l'Oscar per il miglior film straniero e che colpisce in modo molto efficace il pubblico proprio perché sceglie di concentrarsi su una situazione più specifica.
La mia quarta giornata alla Mostra è iniziata la mattina presto con due proiezioni una di seguito all'altra nella stessa sala (la gelida e scomoda fantomatica PalaBiennale). Per fortuna era mattina perché altrimenti le condizioni non sarebbero state favorevoli a mantenere la concentrazione per ore di seguito. In particolare, prima del documentario di cui parleremo oggi, ho avuto il piacere di vedere Lean on Pete, di cui ho scritto nel precedente post.
Le mie aspettative per Human Flow purtroppo non erano molto alte perché già dal giorno prima sentivo pareri piuttosto contrastanti e onestamente le mie precedenti esperienze con l'artista e attivista cinese Ai Weiwei non sono state le migliori. Ho cercato il più possibile di approcciarmi al documentario con la mente più aperta possibile e di non lasciare che i pregiudizi avessero la meglio.
Parlare di profughi e rifugiati è importante e su questo non ci piove. Siccome questo argomento è uno tra i più scottanti al momento avrei immaginato un messaggio molto più acceso, quasi provocante, da parte dell'artista cinese. Weiwei invece ha scelto di dedicarsi alla questione dal punto di vista più generale e vasto possibile optando per un resoconto sulle migrazioni in tutto il mondo, passando di confine in confine, spaziando tra diverse cause che spingono le persone a spostarsi e talvolta a scappare. Non mi aspettavo un approccio così piatto - e davvero troppo vasto che rischia di essere dispersivo - da un uomo che ci ha dato prova di saper sorprendere le persone, che voi siate o no d'accordo con i suoi messaggi.
Parlare di profughi e rifugiati è essenziale al momento, dicevo prima. Raccontare il fenomeno delle migrazioni è invece sicuramente interessante ma dobbiamo pur sempre tener conto del fatto che la gente ha sempre migrato e sempre migrerà. Non dico che un documentario del genere sia totalmente inutile ma non ci presenta cose che già non sappiamo. Non illumina il pubblico circa aspetti più nascosti e pungenti, non suscita nella mente dello spettatore il formarsi di domande e riflessioni originali e stimolanti.
L'impressione che il pubblico di Venezia ha percepito è stata quella di una "vetrina" grazie alla quale Weiwei si sia messo in mostra, come ha sempre fatto peraltro nel corso di tutte le missioni umanitarie a cui ha partecipato. Non metto in dubbio che le sue intenzioni siano fra le migliori possibili ma non vedo perché dovremmo congratularci con lui quando ha la possibilità di fare il giro del mondo, tornare al sicuro nel suo studio di Berlino e apparire in un terzo delle inquadrature di questo suo "documento sui migranti nel mondo".
La scelta di comparire così spesso ha dato fastidio ma credo che ancor più irritante siano le situazioni in cui ciò accade. Prima lo vediamo consolare e porgere fazzoletti ad una donna che inizia a piangere. Poi lo vediamo scherzare offrendo a un profugo uno scambio di passaporti. C'era bisogno di calcare la mano su sé stesso in questo modo? Sempre nel ruolo del buon samaritano.
Lo stile documentaristico non è nulla di originale, piuttosto monotono e stucchevole - a tratti irritante a casa dell'esibizionismo del regista.
Mi scuso se mi sono troppo concentrata sulla figura del regista e poco sul contenuto del documentario ma obiettivamente questo volo d'uccello attraverso 23 paesi rischia di essere troppo dispersivo e poco efficace. A mia discolpa devo avvertirvi che se pagherete il biglietto per vedere Human Flow va tenuto conto che per metà del tempo vedrete Ai Weiwei, quindi pensateci bene perché oggigiorno di documentari di questo tipo ce ne sono diversi. Non penso che sia una brutta opera, che sia inutile o che contenga un messaggio negativo ma se volete un consiglio vi propongo Viaggio della speranza (Reise der Hoffnung, Xavier Koller, 1990) che vinse l'Oscar per il miglior film straniero e che colpisce in modo molto efficace il pubblico proprio perché sceglie di concentrarsi su una situazione più specifica.
sabato 9 settembre 2017
#Venezia74 | Lean on Pete
Sabato 2 settembre 2017 - quarta giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Mi sono svegliata all'alba e ho affrontato un viaggio in vaporetto + autobus durante il quale stavo gelando per andare a vedere la primissima proiezione della giornata: Lean on Pete e, a seguire, Human Flow. Le mie aspettative per entrambi erano alte ma alla fine solo il primo film è riuscito a soddisfarle.
Ci voleva una produzione britannica per rendere su pellicola una storia così intrinsecamente americana, una vicenda che solo negli Stati Uniti avrebbe potuto prendere vita. Il regista inglese Andrew Haigh ha adattato la sceneggiatura dal romanzo La ballata di Charley Thompson (2010, titolo originale Lean on Pete) scritto da Willy Vlautin.
La pellicola annunciata nel 2015, le cui riprese si sono svolte da metà agosto a metà settembre 2016 a Portland, è stato presentato in concorso alla 74° Mostra del Cinema di Venezia.
Charley Thompson, 15 anni, vive una situazione famigliare difficile. La madre l'ha abbandonato quand'era ancora piccolo e il padre, amorevole ma allo stesso tempo inaffidabile, non è capace di provvedere al figlio. Padre e figlio vivono in una situazione economica precaria e l'avventatezza del padre finirà per mettere la sua vita e quella di Charley (Charlie Plummer) in pericolo.
Per fortuna il ragazzo è abituato a cavarsela da solo e inizia quindi un pellegrinaggio alla Oliver Twist fra le strade e i deserti dell'America più profonda. Incontrerà molte persone durante il suo viaggio per arrivare fino a Laramie, Wyoming alla ricerca della zia perduta: reduci di guerra, vagabondi non troppo amichevoli, ma soprattutto Del e Bonnie (Steve Buscemi e Chloe Sevigny) proprietario di cavalli da corsa e rispettivo fantino. Con questi ultimi Charley entrerà per qualche tempo in sintonia ma dai quali prenderà in "eredità" colui che dà il nome all'opera, lo sfortunato cavallo Lean on Pete.
Viaggio on-the-road che racconta e segue la fuga di Charley Thompson attraverso l'America e attraverso la sua formazione. La regia e sceneggiatura di Haigh sono bilanciate ed evocative ma non sarebbero in grado di riempire la pellicola senza il sensazionale giovane protagonista Charlie Plummer che a me e molti altri ha ricordato l'indimenticabile River Phoenix (specialmente di profilo).
Probabilmente non troppo originale dal punto di vista autoriale perché tutto sommato la storia è piuttosto classica, seppur emozionante. Non credo che arriverà a sconvolgere le giurie dei più importanti premi mondiali ma senz'altro rimarrà nei cuori del pubblico.
P.S.: Mentre scrivo questa recensione siamo molto vicini al momento della verità, al 9 settembre 2017, e non avendo visto The Insult (il quale, secondo l'opinione comune, porterà il protagonista a vincere la Coppa Volpi), se dipendesse da me il premio andrebbe al giovane Charlie.
Mi sono svegliata all'alba e ho affrontato un viaggio in vaporetto + autobus durante il quale stavo gelando per andare a vedere la primissima proiezione della giornata: Lean on Pete e, a seguire, Human Flow. Le mie aspettative per entrambi erano alte ma alla fine solo il primo film è riuscito a soddisfarle.
Ci voleva una produzione britannica per rendere su pellicola una storia così intrinsecamente americana, una vicenda che solo negli Stati Uniti avrebbe potuto prendere vita. Il regista inglese Andrew Haigh ha adattato la sceneggiatura dal romanzo La ballata di Charley Thompson (2010, titolo originale Lean on Pete) scritto da Willy Vlautin.
La pellicola annunciata nel 2015, le cui riprese si sono svolte da metà agosto a metà settembre 2016 a Portland, è stato presentato in concorso alla 74° Mostra del Cinema di Venezia.
Charley Thompson, 15 anni, vive una situazione famigliare difficile. La madre l'ha abbandonato quand'era ancora piccolo e il padre, amorevole ma allo stesso tempo inaffidabile, non è capace di provvedere al figlio. Padre e figlio vivono in una situazione economica precaria e l'avventatezza del padre finirà per mettere la sua vita e quella di Charley (Charlie Plummer) in pericolo.
Per fortuna il ragazzo è abituato a cavarsela da solo e inizia quindi un pellegrinaggio alla Oliver Twist fra le strade e i deserti dell'America più profonda. Incontrerà molte persone durante il suo viaggio per arrivare fino a Laramie, Wyoming alla ricerca della zia perduta: reduci di guerra, vagabondi non troppo amichevoli, ma soprattutto Del e Bonnie (Steve Buscemi e Chloe Sevigny) proprietario di cavalli da corsa e rispettivo fantino. Con questi ultimi Charley entrerà per qualche tempo in sintonia ma dai quali prenderà in "eredità" colui che dà il nome all'opera, lo sfortunato cavallo Lean on Pete.
Viaggio on-the-road che racconta e segue la fuga di Charley Thompson attraverso l'America e attraverso la sua formazione. La regia e sceneggiatura di Haigh sono bilanciate ed evocative ma non sarebbero in grado di riempire la pellicola senza il sensazionale giovane protagonista Charlie Plummer che a me e molti altri ha ricordato l'indimenticabile River Phoenix (specialmente di profilo).
Probabilmente non troppo originale dal punto di vista autoriale perché tutto sommato la storia è piuttosto classica, seppur emozionante. Non credo che arriverà a sconvolgere le giurie dei più importanti premi mondiali ma senz'altro rimarrà nei cuori del pubblico.
P.S.: Mentre scrivo questa recensione siamo molto vicini al momento della verità, al 9 settembre 2017, e non avendo visto The Insult (il quale, secondo l'opinione comune, porterà il protagonista a vincere la Coppa Volpi), se dipendesse da me il premio andrebbe al giovane Charlie.
giovedì 7 settembre 2017
#Venezia74 | West of Sunshine
Venerdì 1 settembre 2017 - terza giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Sezione Orizzonti
La mia terza giornata al Festival non è stata molto proficua, soprattutto a causa dell'uragano che ha colpito il Lido per mezza giornata. L'unica proiezione che sono riuscita a vedere è stata la pellicola australiana in concorso nella Sezione Orizzonti: West of Sunshine. Oltre ad averla molto apprezzata e ad essere riuscita ad entrare in completa sintonia con i personaggi, ho anche avuto la possibilità di partecipare alla proiezione con il cast e regista in sala e di assistere ad un Q&A.
In sala erano presenti gli attori Damian Hill e Ty Perham (rispettivamente interpreti del padre e del figlio) e il regista Jason Raftopoulos, al suo primo lungometraggio con quest'opera di neanche un'ora e mezza.
Nell'arco di una giornata, Jim - padre separato - deve prendersi cura del figlio a casa per le vacanze scolastiche cercando allo stesso tempo di ripagare i debiti di gioco. L'ex-moglie, madre di Alex, non conosce le nuove abitudini di vita di Jim, invischiato tra scommesse e strozzini minacciosi. Il ragazzino non sembra particolarmente entusiasta per la giornata che gli si prospetta, in effetti la situazione di fa sempre più critica man mano che le ore passano, fino a raggiungere quel limite che costringerà Jim a prendere una decisione sulla propria vita.
La caratteristica più apprezzata di questo film è la semplicità e linearità dello svolgersi di una giornata nella vita di un padre nei guai che deve occuparsi del figlio adolescente, in questo modo riesce ad essere efficace nel portare avanti il suo messaggio in modo credibile anche grazie al - oserei dire - perfetto lavoro svolto dagli attori protagonisti.
Jim è stato abbandonato dal padre come lui ora è portato a fare con il figlio, sintomo di un disagio generazionale ritratto senza fare ricorso a retorica e morale ridondanti. Non tutta la durata della pellicola è piena di avvenimenti e spesso il ritmo ne risente ma non credo sia un difetto in quanto le misure appaiono più realistiche e percepiamo la sospensione del tempo così come la sentiremmo in prima persona. A mio parere questo non fa che accrescere ancor di più l'immersione all'interno di questa semplice storia di profonda realtà.
Una nota speciale va ai due interpreti protagonisti che nel Q&A successivo alla proiezione hanno risposto alle domande della stampa e del pubblico rivelando aspetti della loro vita privata e dell'esperienza nel calarsi nei panni di Jim e Alex.
L'attore Damian Hill è in effetti un padre per Ty Perham anche nella vita di tutti i giorni, da 8 anni infatti è suo patrigno e molte delle azioni che vediamo interpretare sullo schermo sono a tutti gli effetti parte della quotidianità dei due attori.
Memorabile la scena in cui padre e figlio si tagliano - male - a vicenda i capelli, e ancor più memorabili sono stati i commenti del regista sulle difficoltà di girare questa scena al tramonto di Melbourne così come veniva, in quanto non sarebbe stato possibile ripeterla, alla fine delle riprese. L'intera sala è sembrata molto divertita quando il giovane Ty Perham ha ammesso di essere un pessimo parrucchiere prima di ammette: "Damian invece è bravo, è lui che me li taglia solitamente, in questo caso però Jason gli ha detto di farlo senza troppa cura".
Sezione Orizzonti
La mia terza giornata al Festival non è stata molto proficua, soprattutto a causa dell'uragano che ha colpito il Lido per mezza giornata. L'unica proiezione che sono riuscita a vedere è stata la pellicola australiana in concorso nella Sezione Orizzonti: West of Sunshine. Oltre ad averla molto apprezzata e ad essere riuscita ad entrare in completa sintonia con i personaggi, ho anche avuto la possibilità di partecipare alla proiezione con il cast e regista in sala e di assistere ad un Q&A.
In sala erano presenti gli attori Damian Hill e Ty Perham (rispettivamente interpreti del padre e del figlio) e il regista Jason Raftopoulos, al suo primo lungometraggio con quest'opera di neanche un'ora e mezza.
Nell'arco di una giornata, Jim - padre separato - deve prendersi cura del figlio a casa per le vacanze scolastiche cercando allo stesso tempo di ripagare i debiti di gioco. L'ex-moglie, madre di Alex, non conosce le nuove abitudini di vita di Jim, invischiato tra scommesse e strozzini minacciosi. Il ragazzino non sembra particolarmente entusiasta per la giornata che gli si prospetta, in effetti la situazione di fa sempre più critica man mano che le ore passano, fino a raggiungere quel limite che costringerà Jim a prendere una decisione sulla propria vita.
La caratteristica più apprezzata di questo film è la semplicità e linearità dello svolgersi di una giornata nella vita di un padre nei guai che deve occuparsi del figlio adolescente, in questo modo riesce ad essere efficace nel portare avanti il suo messaggio in modo credibile anche grazie al - oserei dire - perfetto lavoro svolto dagli attori protagonisti.
Jim è stato abbandonato dal padre come lui ora è portato a fare con il figlio, sintomo di un disagio generazionale ritratto senza fare ricorso a retorica e morale ridondanti. Non tutta la durata della pellicola è piena di avvenimenti e spesso il ritmo ne risente ma non credo sia un difetto in quanto le misure appaiono più realistiche e percepiamo la sospensione del tempo così come la sentiremmo in prima persona. A mio parere questo non fa che accrescere ancor di più l'immersione all'interno di questa semplice storia di profonda realtà.
Una nota speciale va ai due interpreti protagonisti che nel Q&A successivo alla proiezione hanno risposto alle domande della stampa e del pubblico rivelando aspetti della loro vita privata e dell'esperienza nel calarsi nei panni di Jim e Alex.
L'attore Damian Hill è in effetti un padre per Ty Perham anche nella vita di tutti i giorni, da 8 anni infatti è suo patrigno e molte delle azioni che vediamo interpretare sullo schermo sono a tutti gli effetti parte della quotidianità dei due attori.
Memorabile la scena in cui padre e figlio si tagliano - male - a vicenda i capelli, e ancor più memorabili sono stati i commenti del regista sulle difficoltà di girare questa scena al tramonto di Melbourne così come veniva, in quanto non sarebbe stato possibile ripeterla, alla fine delle riprese. L'intera sala è sembrata molto divertita quando il giovane Ty Perham ha ammesso di essere un pessimo parrucchiere prima di ammette: "Damian invece è bravo, è lui che me li taglia solitamente, in questo caso però Jason gli ha detto di farlo senza troppa cura".
mercoledì 6 settembre 2017
#Venezia74 | The Shape of Water
Giovedì 31 agosto 2017 - seconda giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Dopo essermi dedicata alla versione restaurata per il 40° anniversario di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ho utilizzato tutto il tempo che mi restava fino alla sera per mettermi in coda e sperare di riuscire ad entrare alla proiezione in Sala Grande di The Shape of Water. Non so ancora come io ci sia riuscita ma oltre ad entrare ho avuto un posto in prima fila centrale.
Vedere il film in anteprima assoluta, sapendo che tra il pubblico c'erano il regista Guillermo del Toro, le attrici Sally Hawkins, Octavia Spencer e l'attore Richard Jenkins - nonché svariati altri membri della crew - è stata senza ombra di dubbio un'esperienza irripetibile che ad oggi non sono riuscita a replicare (nonostante ci abbia provato).
Marzo 2016: il film viene annunciato, agosto 2016: iniziano le riprese, 6 novembre: le riprese finiscono, 19 dicembre: Alexandre Desplat (anch'egli presente in sala) si occuperà della colonna sonora, 19 luglio 2017: diffuso il trailer, 31 agosto: proiezione alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, 8 dicembre: distribuzione nelle sale statunitensi.
Queste sono le date salienti di questo thriller ambientato durante la Guerra Fredda nel quale il sapore di favola prevale sulla trama di spionaggio. Il pubblico era entusiasta e il cast con lui, anche se a qualche giorno (e proiezione) di distanza mi sento di dire che non sarà lui a portarsi a casa il Leone d'Oro, anche se possiamo tranquillamente aspettarci di rivederlo alla notte degli Oscar 2018.
La cifra horror/fantasy che contraddistingue il celebre regista messicano, che qui figura anche come co-sceneggiatore e co-produttore, viene riconfermata dalla sua nuova pellicola, che similmente a Il labirinto del fauno (2006) ci presenta una favola inquietante su uno sfondo storico preciso: gli anni della Guerra Fredda, ossia l'America degli anni sessanta.
Sally Hawkins è Elisa, una ragazza muta e solitaria che convive con il migliore amico interpretato da Jenkins. Una storia di discriminazione derivata dalla diversità è quella portata sullo schermo da Del Toro: la disabilità fisica di Elisa, l'omosessualità del personaggio di Jenkins, la questione razziale che tocca Zelda (migliore amica e collega di Elisa, interpretata da Octavia Spencer) e anche altre impiegate delle pulizie (mestiere che sottintende una certa discriminazione), ma anche la donna nei confronti del maschilismo e, ciliegina sulla torta, la "creatura" interpretata da Doug Jones.
Elisa e Zelda puliscono i pavimenti di un laboratorio governativo quando si imbattono in una creatura misteriosa tenuta top-secret dal perfido capo interpretato da Michael Shannon. Nulla di originale e sconvolgente per quanto riguarda la trama inserita nel filone "spionaggio della Guerra Fredda" ma non potrete fare a meno di commuovervi - o almeno addolcirvi - dalle note delicate e malinconiche di una storia di diversità e venire a patti con il proprio destino.
Quest'anno a Venezia sono in concorso parecchi film forti e cinici, questo non è uno di quelli. The Shape of Water è una pellicola estremamente delicata realizzata da un regista sapiente che non ha perso nemmeno per un attimo l'idea che aveva in mente ed è riuscito a portarla avanti in maniera equilibrata dall'inizio alla fine, aggiungendo naturalmente la sua firma con un'atmosfera unica di realismo magico, caro alla sua area di provenienza.
Forse non l'opera più sconvolgente di Guillermo Del Toro, forse non otterrà una valanga di premi, ma sarà sicuramente apprezzato dai più, sarà sempre e comunque capace di emozionare la gente, conta su un cast meraviglioso, una fotografia straordinaria e una colonna sonora magica.
Dopo essermi dedicata alla versione restaurata per il 40° anniversario di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ho utilizzato tutto il tempo che mi restava fino alla sera per mettermi in coda e sperare di riuscire ad entrare alla proiezione in Sala Grande di The Shape of Water. Non so ancora come io ci sia riuscita ma oltre ad entrare ho avuto un posto in prima fila centrale.
Vedere il film in anteprima assoluta, sapendo che tra il pubblico c'erano il regista Guillermo del Toro, le attrici Sally Hawkins, Octavia Spencer e l'attore Richard Jenkins - nonché svariati altri membri della crew - è stata senza ombra di dubbio un'esperienza irripetibile che ad oggi non sono riuscita a replicare (nonostante ci abbia provato).
Marzo 2016: il film viene annunciato, agosto 2016: iniziano le riprese, 6 novembre: le riprese finiscono, 19 dicembre: Alexandre Desplat (anch'egli presente in sala) si occuperà della colonna sonora, 19 luglio 2017: diffuso il trailer, 31 agosto: proiezione alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, 8 dicembre: distribuzione nelle sale statunitensi.
Queste sono le date salienti di questo thriller ambientato durante la Guerra Fredda nel quale il sapore di favola prevale sulla trama di spionaggio. Il pubblico era entusiasta e il cast con lui, anche se a qualche giorno (e proiezione) di distanza mi sento di dire che non sarà lui a portarsi a casa il Leone d'Oro, anche se possiamo tranquillamente aspettarci di rivederlo alla notte degli Oscar 2018.
La cifra horror/fantasy che contraddistingue il celebre regista messicano, che qui figura anche come co-sceneggiatore e co-produttore, viene riconfermata dalla sua nuova pellicola, che similmente a Il labirinto del fauno (2006) ci presenta una favola inquietante su uno sfondo storico preciso: gli anni della Guerra Fredda, ossia l'America degli anni sessanta.
Sally Hawkins è Elisa, una ragazza muta e solitaria che convive con il migliore amico interpretato da Jenkins. Una storia di discriminazione derivata dalla diversità è quella portata sullo schermo da Del Toro: la disabilità fisica di Elisa, l'omosessualità del personaggio di Jenkins, la questione razziale che tocca Zelda (migliore amica e collega di Elisa, interpretata da Octavia Spencer) e anche altre impiegate delle pulizie (mestiere che sottintende una certa discriminazione), ma anche la donna nei confronti del maschilismo e, ciliegina sulla torta, la "creatura" interpretata da Doug Jones.
Elisa e Zelda puliscono i pavimenti di un laboratorio governativo quando si imbattono in una creatura misteriosa tenuta top-secret dal perfido capo interpretato da Michael Shannon. Nulla di originale e sconvolgente per quanto riguarda la trama inserita nel filone "spionaggio della Guerra Fredda" ma non potrete fare a meno di commuovervi - o almeno addolcirvi - dalle note delicate e malinconiche di una storia di diversità e venire a patti con il proprio destino.
Quest'anno a Venezia sono in concorso parecchi film forti e cinici, questo non è uno di quelli. The Shape of Water è una pellicola estremamente delicata realizzata da un regista sapiente che non ha perso nemmeno per un attimo l'idea che aveva in mente ed è riuscito a portarla avanti in maniera equilibrata dall'inizio alla fine, aggiungendo naturalmente la sua firma con un'atmosfera unica di realismo magico, caro alla sua area di provenienza.
Forse non l'opera più sconvolgente di Guillermo Del Toro, forse non otterrà una valanga di premi, ma sarà sicuramente apprezzato dai più, sarà sempre e comunque capace di emozionare la gente, conta su un cast meraviglioso, una fotografia straordinaria e una colonna sonora magica.
lunedì 4 settembre 2017
#Venezia74 (Restauri) | Incontri ravvicinati del terzo tipo
Giovedì 31 agosto 2017 - seconda giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Sezione Classici Restaurati
La mia seconda giornata al festival è stata piuttosto proficua per quanto riguarda la sera, tuttavia ho passato anche un pomeriggio interessante grazie al primo film della rassegna Classici Restaurati che si svolge come ogni anno in Sala Giardino. Era proprio qui che esattamente un anno fa ho visto per la prima volta Ventesimo Secolo (Howard Hawks, 1934) e me ne sono innamorata.
Vedere i grandi classici del passato al cinema è un'esperienza purtroppo non frequente ma che cerco di sfruttare non appena mi si presenta l'occasione. Un film come Ventesimo Secolo non è di facile reperibilità né online né su DVD, eppure non è questa la vera ragione per cui ho deciso di replicare l'esperienza anche quest'anno. Incontri ravvicinati del terzo tipo è talmente diffuso che l'avrei potuto comodamente recuperare in qualsiasi momento ma ho preferito invece aspettare il 31 agosto per godermi la visione su uno schermo di dimensioni adatte, con l'audio adatto, in versione appena restaurata e perché no, con l'atmosfera giusta di una sala pienissima ad uno dei maggiori festival cinematografici mondiali.
La discussione su "schermo del tablet vs. schermo del cinema" emerge di tanto in tanto - un po' più di frequente se sei un forte sostenitore del secondo tipo di supporto - e a tal proposito volevo lasciarvi il link di un video dove David Lynch esprime perfettamente questo concetto, commentandolo "Get real"! ( https://www.youtube.com/watch?v=wKiIroiCvZ0&feature=youtu.be )
Lasciando ora da parte questa discussione (sulla quale potrei andare avanti e oltre) passiamo ora al film in sé, perché - lo confesso - questa era la prima volta che lo vedevo. Chi di noi non è cresciuto con i film di Steven Spielberg dagli anni '70-'80 a questa parte? Persino io negli anni '90-primi 2000 ho sempre visto e rivisto le sue pellicole, alle quali sono ormai affezionata, eppure con questo non era mai capitata l'occasione.
Correva l'anno 1977 quando Close Encounters (of the Third Kind) uscì nelle sale statunitensi, 40 anni dopo, nel 2017 la versione restaurata viene proiettata in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, in occasione dell'importante anniversario.
Terzo lungometraggio scritto e diretto da Steven Spielberg valse due premi Oscar nel 1978 (Miglior fotografia, Miglior montaggio sonoro), il David di Donatello lo stesso anno come Miglior film straniero, oltre che al BAFTA nel 1979 per la Miglior scenografia. Dieci anni fa, in occasione del 30° anniversario la pellicola fantascientifica venne selezionata per la preservazione nel National Film Registry presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
La struttura narrativa è piuttosto classica, una vicenda di gente comune che inizia ad entrare inspiegabilmente in contatto con gli extra-terrestri e che alla fine si risolverà per il meglio. Quasi un preludio ad un'idea che poi sarà sviluppata in un film interamente dedicato, E.T. (1982), ossia l'innocenza e il carattere tutto sommato innocuo di queste creature aliene agli occhi di Spielberg. Intenzionalmente interessato a distaccarsi dalla pericolosa minaccia aliena che pervade la fantascienza degli anni '50 e '60, agli spettatori di oggi l'approccio di Spielberg ricorderà subito quello di Villeneuve nel recente Arrival.
L'intento di dare vita ad una storia semplice ma d'effetto è stata confermata dal regista stesso che, reduce dall'enorme successo di Lo Squalo (1975), godeva di ampi margini creativi ed economici grazie alla Columbia. Collaborarono come consulenti perfino la NASA, la U.S. Air Force e l'astronomo e ufologo statunitense J. Allen Hynek, fonte d'ispirazione per il soggetto del film.
Cast notevole ma non eccessivamente ostentato composto dal protagonista Richard Dreyfuss e la sua spalla Melinda Dillon, rispettivamente padre di famiglia e madre single che ricevono messaggi dagli alieni. Interessante la partecipazione di Francois Truffaut nei panni dello scienziato e ricercatore francese che porta avanti gli studi in materia di UFO. Memorabili anche i personaggi dell'aiutante ricercatore di Bob Balaban e l'esilarante moglie di Dreyfuss, Teri Garr. Il volto più simbolico tuttavia credo appartenga al giovanissimo Cary Guffey, figlio della Dillon, rapito dalle misteriose entità.
Si nota la somiglianza degli alieni con la figura di E.T. anche se forse meno definiti, si tratta in entrambi i casi dello splendido lavoro di Carlo Rambaldi, noto effettuata italiano.
Altro aspetto iconico del film è sicuramente la colonna sonora di John Williams, eterno collaboratore di Spielberg, a maggior ragione se pensiamo all'importanza primaria che la musica ha come mezzo di comunicazione universale nel vero senso del termine!
Sezione Classici Restaurati
La mia seconda giornata al festival è stata piuttosto proficua per quanto riguarda la sera, tuttavia ho passato anche un pomeriggio interessante grazie al primo film della rassegna Classici Restaurati che si svolge come ogni anno in Sala Giardino. Era proprio qui che esattamente un anno fa ho visto per la prima volta Ventesimo Secolo (Howard Hawks, 1934) e me ne sono innamorata.
Vedere i grandi classici del passato al cinema è un'esperienza purtroppo non frequente ma che cerco di sfruttare non appena mi si presenta l'occasione. Un film come Ventesimo Secolo non è di facile reperibilità né online né su DVD, eppure non è questa la vera ragione per cui ho deciso di replicare l'esperienza anche quest'anno. Incontri ravvicinati del terzo tipo è talmente diffuso che l'avrei potuto comodamente recuperare in qualsiasi momento ma ho preferito invece aspettare il 31 agosto per godermi la visione su uno schermo di dimensioni adatte, con l'audio adatto, in versione appena restaurata e perché no, con l'atmosfera giusta di una sala pienissima ad uno dei maggiori festival cinematografici mondiali.
La discussione su "schermo del tablet vs. schermo del cinema" emerge di tanto in tanto - un po' più di frequente se sei un forte sostenitore del secondo tipo di supporto - e a tal proposito volevo lasciarvi il link di un video dove David Lynch esprime perfettamente questo concetto, commentandolo "Get real"! ( https://www.youtube.com/watch?v=wKiIroiCvZ0&feature=youtu.be )
Lasciando ora da parte questa discussione (sulla quale potrei andare avanti e oltre) passiamo ora al film in sé, perché - lo confesso - questa era la prima volta che lo vedevo. Chi di noi non è cresciuto con i film di Steven Spielberg dagli anni '70-'80 a questa parte? Persino io negli anni '90-primi 2000 ho sempre visto e rivisto le sue pellicole, alle quali sono ormai affezionata, eppure con questo non era mai capitata l'occasione.
Correva l'anno 1977 quando Close Encounters (of the Third Kind) uscì nelle sale statunitensi, 40 anni dopo, nel 2017 la versione restaurata viene proiettata in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, in occasione dell'importante anniversario.
Terzo lungometraggio scritto e diretto da Steven Spielberg valse due premi Oscar nel 1978 (Miglior fotografia, Miglior montaggio sonoro), il David di Donatello lo stesso anno come Miglior film straniero, oltre che al BAFTA nel 1979 per la Miglior scenografia. Dieci anni fa, in occasione del 30° anniversario la pellicola fantascientifica venne selezionata per la preservazione nel National Film Registry presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
La struttura narrativa è piuttosto classica, una vicenda di gente comune che inizia ad entrare inspiegabilmente in contatto con gli extra-terrestri e che alla fine si risolverà per il meglio. Quasi un preludio ad un'idea che poi sarà sviluppata in un film interamente dedicato, E.T. (1982), ossia l'innocenza e il carattere tutto sommato innocuo di queste creature aliene agli occhi di Spielberg. Intenzionalmente interessato a distaccarsi dalla pericolosa minaccia aliena che pervade la fantascienza degli anni '50 e '60, agli spettatori di oggi l'approccio di Spielberg ricorderà subito quello di Villeneuve nel recente Arrival.
L'intento di dare vita ad una storia semplice ma d'effetto è stata confermata dal regista stesso che, reduce dall'enorme successo di Lo Squalo (1975), godeva di ampi margini creativi ed economici grazie alla Columbia. Collaborarono come consulenti perfino la NASA, la U.S. Air Force e l'astronomo e ufologo statunitense J. Allen Hynek, fonte d'ispirazione per il soggetto del film.
Cast notevole ma non eccessivamente ostentato composto dal protagonista Richard Dreyfuss e la sua spalla Melinda Dillon, rispettivamente padre di famiglia e madre single che ricevono messaggi dagli alieni. Interessante la partecipazione di Francois Truffaut nei panni dello scienziato e ricercatore francese che porta avanti gli studi in materia di UFO. Memorabili anche i personaggi dell'aiutante ricercatore di Bob Balaban e l'esilarante moglie di Dreyfuss, Teri Garr. Il volto più simbolico tuttavia credo appartenga al giovanissimo Cary Guffey, figlio della Dillon, rapito dalle misteriose entità.
Si nota la somiglianza degli alieni con la figura di E.T. anche se forse meno definiti, si tratta in entrambi i casi dello splendido lavoro di Carlo Rambaldi, noto effettuata italiano.
Altro aspetto iconico del film è sicuramente la colonna sonora di John Williams, eterno collaboratore di Spielberg, a maggior ragione se pensiamo all'importanza primaria che la musica ha come mezzo di comunicazione universale nel vero senso del termine!
sabato 2 settembre 2017
#Venezia 74 | First Reformed
Mercoledì 30 agosto 2017 - prima giornata alla Mostra del Cinema di Venezia
Nonostante First Reformed sia stato presentato il giorno successivo, sono riuscita a sgattaiolare alla proiezione anticipata della stampa e questo è stato un bene perché prima della proiezione ufficiale ho potuto poi dedicarmi al red carpet e fotografare i protagonisti Ethan Hawke e Amanda Seyfried.
Il tema della redenzione così caro al regista americano Paul Schrader riemerge con tutta la forza in questa sua pellicola del 2017, per la quale figura anche come sceneggiatore.
Incredibile come la rabbia che provano i personaggi arrivi al pubblico senza perdere intensità nonostante non sfoci in violenza visibile sullo schermo (se non forse verso la fine, ma a livelli piuttosto contenuti).
Gli ampi spazi vuoti, interni ed esterni, gli ambienti spogli e le luci fredde avvolgono a loro modo il tormento di padre Toller (Ethan Hawke) spaziando dalla sua abitazione a fianco alla chiesa, alla storica chiesa stessa - la "First Reformed" appunto - passando per la villetta dei coniugi Mensana e arrivando agli spazi vastissimi ma altrettanto vuoti dei quartieri generali di un'organizzazione religiosa.
Michael Mensana è un attivista ecologista radicale, all'apparenza non violento, i cui comportamenti recenti stanno preoccupando la moglie Mary (Amanda Seyfried), tanto da spingerla a cercare aiuto proprio da padre Toller. Il suicidio di Michael sarà la goccia che farà traboccare il vaso della rabbia repressa del reverendo, accumulata in seguito ad una vita passata sotto la pressione di una famiglia di tradizione militare, dalla sua stessa esperienza nell'esercito e dalla morte di suo figlio in guerra, motivo peraltro della fine del suo matrimonio.
La coppia dei coniugi Mensana porta alla nostra attenzione una dicotomia essenziale dell'animo umano - entrambi sostengono fermamente la causa in cui credono ma la differenza tra loro (che porterà alla morte Michael) è l'istinto di autodistruzione di lui contro la preservazione della vita a tutti i costi di lei.
Ulteriore tematica solo in apparenza provocatoria è quella velata del terrorismo in chiave cristiana, solo di passaggio, per dimostrare come non sia questo l'obiettivo verso il quale il regista vuole puntare bensì un altro tipo di terrorismo, quello interiore nella vita di un uomo tormentato.
Il sound ambient oscuro della colonna sonora riesce ad essere allo stesso tempo opprimente e liberatorio, opera del musicista gallese Brian Williams - meglio conosciuto come Lustmord - già avvezzo alla composizione di musica da film fin dagli anni '90.
Durante la sequenza quasi mistica dei protagonisti che "volano" attraverso disparati scenari l'immagine raggiunge un connubio con la musica particolarmente straniante, sembra di fluttuare in solitudine nello spazio cosmico mentre stiamo seduti su una poltrona della sala di proiezione con qualche centinaio di persone attorno a noi.
Nonostante First Reformed sia stato presentato il giorno successivo, sono riuscita a sgattaiolare alla proiezione anticipata della stampa e questo è stato un bene perché prima della proiezione ufficiale ho potuto poi dedicarmi al red carpet e fotografare i protagonisti Ethan Hawke e Amanda Seyfried.
Incredibile come la rabbia che provano i personaggi arrivi al pubblico senza perdere intensità nonostante non sfoci in violenza visibile sullo schermo (se non forse verso la fine, ma a livelli piuttosto contenuti).
Gli ampi spazi vuoti, interni ed esterni, gli ambienti spogli e le luci fredde avvolgono a loro modo il tormento di padre Toller (Ethan Hawke) spaziando dalla sua abitazione a fianco alla chiesa, alla storica chiesa stessa - la "First Reformed" appunto - passando per la villetta dei coniugi Mensana e arrivando agli spazi vastissimi ma altrettanto vuoti dei quartieri generali di un'organizzazione religiosa.
Michael Mensana è un attivista ecologista radicale, all'apparenza non violento, i cui comportamenti recenti stanno preoccupando la moglie Mary (Amanda Seyfried), tanto da spingerla a cercare aiuto proprio da padre Toller. Il suicidio di Michael sarà la goccia che farà traboccare il vaso della rabbia repressa del reverendo, accumulata in seguito ad una vita passata sotto la pressione di una famiglia di tradizione militare, dalla sua stessa esperienza nell'esercito e dalla morte di suo figlio in guerra, motivo peraltro della fine del suo matrimonio.
La coppia dei coniugi Mensana porta alla nostra attenzione una dicotomia essenziale dell'animo umano - entrambi sostengono fermamente la causa in cui credono ma la differenza tra loro (che porterà alla morte Michael) è l'istinto di autodistruzione di lui contro la preservazione della vita a tutti i costi di lei.
Ulteriore tematica solo in apparenza provocatoria è quella velata del terrorismo in chiave cristiana, solo di passaggio, per dimostrare come non sia questo l'obiettivo verso il quale il regista vuole puntare bensì un altro tipo di terrorismo, quello interiore nella vita di un uomo tormentato.
Il sound ambient oscuro della colonna sonora riesce ad essere allo stesso tempo opprimente e liberatorio, opera del musicista gallese Brian Williams - meglio conosciuto come Lustmord - già avvezzo alla composizione di musica da film fin dagli anni '90.
Durante la sequenza quasi mistica dei protagonisti che "volano" attraverso disparati scenari l'immagine raggiunge un connubio con la musica particolarmente straniante, sembra di fluttuare in solitudine nello spazio cosmico mentre stiamo seduti su una poltrona della sala di proiezione con qualche centinaio di persone attorno a noi.
venerdì 1 settembre 2017
FILM: Elle
Titolo (originale): Elle
Produzione: Francia, 2016
Regista: Paul Verhoeven
Genere: thriller, drammatico
Attrice protagonista: Isabelle Huppert
Soggetto: romanzo del 2012 "Oh..." di Philippe Djian
Produzione: Francia, 2016
Regista: Paul Verhoeven
Genere: thriller, drammatico
Attrice protagonista: Isabelle Huppert
Soggetto: romanzo del 2012 "Oh..." di Philippe Djian
Recupero solo ora questa pellicola presentata a Cannes 2016 e distribuita nelle sale italiane a fine marzo, a un anno dall'uscita nei cinema francesi.
Nei primi mesi di quest'anno si era molto discusso di Elle in seguito alla vincita come Miglior film straniero ai Golden Globes e alla doppia nomination per Isabelle Huppert come miglior protagonista - agli Oscar e Golden Globes - vinta nel secondo caso.
Si tratta del primo film di produzione francese per Verhoeven, infatti inizialmente sarebbe dovuta essere una produzione statunitense con un'attrice protagonista di grido; solo in un secondo momento il regista decise di spostare la produzione in Francia anche perché il suo stile esplicito e le sue tematiche di erotismo e violenza con echi a Basic Instinct non l'avrebbero passata liscia negli USA.
Volendo definirlo con un'etichetta di genere possiamo chiamarlo "thriller psicologico" perché gran parte della trama ruota attorno alle reazioni e alle conseguenze che uno stupro a inizio pellicola hanno sulla vita della protagonista, una donna francese di mezza età di nome Michéle Leblanc. Una protagonista nel vero senso della parola, con un carattere forte tale da prevalere su quello di chi le sta intorno. Una madre indipendente con gusti amorosi fuori dal comune, un "padre-mostro" che si trova in carcere da quando lei era bambina, un ex marito poco degno di nota e un figlio buono a nulla.
Dopo molti rifiuti da parte di molte star di richiamo, nel 2014 Isabelle Huppert firma il contratto per interpretare Michéle Leblanc, personaggio che aveva amato e col quale provava affinità fin da quando lesse il romanzo di Djian del 2012.
Le riprese si sono svolte nell'arco di 10 settimane a partire dal 10 gennaio 2015 a Parigi, con alcuni disagi e imprevisti a causa degli attentati che avevano luogo in quel periodo nella capitale francese.
Verhoeven è un autore a tutto tondo e in questo suo ultimo film ha dimostrato di aver messo tanto di se stesso, a partire dall'impronta nella messa in scena, nello storyboard e altre fasi cruciali della produzione.
La colonna sonora è opera della compositrice inglese pluripremiato Anne Dudley (il cui ultimo lavoro era stato al film-musical Les Miserables nel 2012).
Le poche critiche negative da parte del pubblico si sono principalmente concentrate sull'anti-femminismo della pellicola, in riferimento alla mancata denuncia dello stupro da parte della protagonista, immagino. Ciò non è sufficiente a etichettare il film come anti-femminista perché credo sia abbastanza evidente che le figure forti con un carattere predominante in questa storia siano proprio le donne. Non sono riuscita a trovare nessun elemento concreto che alluda ad una posizione inferiore della donna. Michele e sua madre hanno un carattere forte, sono indipendenti e vivono la loro vita sessuale e - nel primo caso - lavorativa come la vivrebbe un uomo (non nel senso di mascolinizzare la donna ma liberarla dai soliti stereotipi che affollano i soliti personaggi al cinema). Un ulteriore punto interessante è il fatto che spesso le figure femminili più emancipate in campo lavorativo/sessuale/intellettuale... siano donne giovani, mentre qui Michele e sua madre sono donne di mezza età e di età avanzata, credo che le emancipi non solo in quanto donne ma anche per la loro età.
Persino Anna, l'amica di Michele, e la stessa compagna del figlio, sono tutte figure femminili molto interessanti. Trovo che la scelta di contrapporre la personalità del figlio con quella della compagna sia stata una scelta astuta, facendoli comunicare spesso anche attraverso Michele stessa.
Ancora più importante però è il fatto che tutto ciò non sia lo scopo del film, non sia l'obiettivo ultimo perché sono tutti elementi che vengono inseriti in un thriller psicologico (o comunque in una storia che sta in piedi da sola anche se questi elementi non ci fossero). Trovo che alla fine sia proprio questo l'aspetto più importante - motivo per il quale avevo anche apprezzato moltissimo Moonlight che riesce a trattare tematiche razziali e di classe sociale pur non rendendole il fulcro della questione (facendole sembrare magari forzate).
venerdì 2 giugno 2017
FILM: Perfetti sconosciuti
Titolo (originale): Perfetti Sconosciuti
Regia: Paolo Genovese
Produzione: Italia, 2016
Genere: commedia, drammatico
Cast: Giuseppe Battiston, Anna Foglietta, Edoardo Leo, Marco Giallini, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Kasia Smutniak
Eva propone un gioco per animare la serata: tutti devono appoggiare il proprio cellulare al centro del tavolo e tutte le chiamate e messaggi saranno ascoltati da tutti, non esistono più segreti.
Naturalmente tutti accettano, anche se con qualche tentennamento, perché rifiutare vorrebbe automaticamente dire che si sta nascondendo qualcosa. Potrete immaginare cosa salterà fuori nel corso della cena o forse non lo immaginate neanche. O meglio, anche se lo immaginate vedrete che non sarà come pensate...
Girato nell'autunno 2015 ed uscito al cinema nei primi mesi del 2016, ha riscosso un grandissimo successo di pubblico, anche internazionale (tanto che ne sono stati chiesti i diritti per dei remake stranieri). Ha sbancato anche al botteghino, diventando uno dei film più visti della stagione 2015-16. Ma soprattutto è stato apprezzatissimo dalla critica (e io concordo in pieno) per la sceneggiatura e regia molto misurate e costruite sapientemente e la recitazione di qualità da parte di ogni interprete.
Ho apprezzato particolarmente una scena prima della sequenza conclusiva, dove veniva mostrato un chiaro riferimento ad una scena del film Inception (Nolan, 2010). Non posso spiegare perché per non rovinare la sorpresa a qualcuno ma posso solo dire che è la ciliegina su una torta davvero ben riuscita.
Perfetti sconosciuti si è aggiudicato 2 David di Donatello (miglior film e sceneggiatura), 3 Nastri d'argento (migliore commedia, miglior canzone, cast) più diversi altri riconoscimenti.
Regia: Paolo Genovese
Produzione: Italia, 2016
Genere: commedia, drammatico
Cast: Giuseppe Battiston, Anna Foglietta, Edoardo Leo, Marco Giallini, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Kasia Smutniak
"Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta."
La tag-line è sincera, su questo non c'è dubbio, chiunque la legga lo sa. In Perfetti sconosciuti questo tema esistenziale viene letto in chiave: "telefoni cellulari che sono la scatola nera delle nostre vite".
Eva e Rocco (Smutniak e Giallini) sono una coppia sposata da molti anni che una sera invitano a cena un gruppo di amici di lunga data: la coppia di neo sposi Cosimo e Bianca (Leo e Rohrwacher), la coppia sposata da più tempo composta la Lele e Carlotta (Mastandrea e Foglietta) e l'amico single divorziato Peppe (Giuseppe Battiston). Tutto il film ha luogo tra le pareti della sala da pranzo della coppia ospitante che, prima dell'arrivo degli amici, aveva litigato trovandosi in disaccordo sul comportamento della figlia diciassettenne. Man mano che arrivano gli ospiti e che impariamo a conoscerli, seppur superficialmente all'inizio, capiamo che ogni coppia ha qualche problema, chi più chi meno.Eva propone un gioco per animare la serata: tutti devono appoggiare il proprio cellulare al centro del tavolo e tutte le chiamate e messaggi saranno ascoltati da tutti, non esistono più segreti.
Naturalmente tutti accettano, anche se con qualche tentennamento, perché rifiutare vorrebbe automaticamente dire che si sta nascondendo qualcosa. Potrete immaginare cosa salterà fuori nel corso della cena o forse non lo immaginate neanche. O meglio, anche se lo immaginate vedrete che non sarà come pensate...
Girato nell'autunno 2015 ed uscito al cinema nei primi mesi del 2016, ha riscosso un grandissimo successo di pubblico, anche internazionale (tanto che ne sono stati chiesti i diritti per dei remake stranieri). Ha sbancato anche al botteghino, diventando uno dei film più visti della stagione 2015-16. Ma soprattutto è stato apprezzatissimo dalla critica (e io concordo in pieno) per la sceneggiatura e regia molto misurate e costruite sapientemente e la recitazione di qualità da parte di ogni interprete.
Ho apprezzato particolarmente una scena prima della sequenza conclusiva, dove veniva mostrato un chiaro riferimento ad una scena del film Inception (Nolan, 2010). Non posso spiegare perché per non rovinare la sorpresa a qualcuno ma posso solo dire che è la ciliegina su una torta davvero ben riuscita.
Perfetti sconosciuti si è aggiudicato 2 David di Donatello (miglior film e sceneggiatura), 3 Nastri d'argento (migliore commedia, miglior canzone, cast) più diversi altri riconoscimenti.
lunedì 15 maggio 2017
Streghe / Charmed (stagione 3)
So che è passato un bel po' di tempo da quando vi avevo parlato delle prime due stagioni di Streghe ma finalmente sono tornata per parlarvi della terza, a.k.a. l'ultima "vera" stagione originale, se sapete cosa voglio dire.
Titolo della serie: Streghe
Titolo originale: Charmed
Periodo di trasmissione: 2000-2001 (USA) e 2001-2002 (Italia) riferito alla stag. 3
Genere: Fantasy
Ideato da: Constance M. Burges
Attori: Shannen Doherty (Prue), Holly Marie Combs (Piper), Alyssa Milano (Phoebe), Brian Krause (Leo Wyatt), Julian McMahon (Cole Turner)
Titolo della serie: Streghe
Titolo originale: Charmed
Periodo di trasmissione: 2000-2001 (USA) e 2001-2002 (Italia) riferito alla stag. 3
Genere: Fantasy
Ideato da: Constance M. Burges
Attori: Shannen Doherty (Prue), Holly Marie Combs (Piper), Alyssa Milano (Phoebe), Brian Krause (Leo Wyatt), Julian McMahon (Cole Turner)
Anche per la terza stagione gli episodi sono 22.
Durante l'assenza di Piper e Leo le due sorelle rimaste sono in difficoltà e, a seguito di un attacco di demoni, finiscono anche in tribunale. Qui Phoebe fa conoscenza del procuratore Cole Turner, che altri non è che la forma umana del pericoloso demone Belthazor. Il problema è che Phoebe si innamora di Cole ancora prima di scoprire la sua vera identità, ma la storia continua anche quando la natura di Belthazor si rivela. Naturalmente Prue (e poi anche Piper quando torna) vogliono ostacolare la relazione e possibilmente eliminare anche questo demone. Phoebe naturalmente è sconvolta dopo aver scoperto di stare con un demone ma decide di fidarsi e finge di averlo eliminato, facendolo credere anche alle sorelle.
In questa stagione poi finalmente Leo e Piper si sposano, dopo mille peripezie e dopo aver ottenuto il permesso anche dagli anziani.
Cole decide di fingere di far parte ancora del male per poter passare informazioni alle sorelle ma naturalmente il suo doppio gioco viene scoperto e Cole viene riportato dalla parte del male. A causa di ciò Phoebe diventa una Banshee ma per fortuna Cole la salva, dimostrando di essere ancora buono in fondo.
L'ultimo episodio della terza stagione è probabilmente l'episodio più importante dell'intera serie: inizialmente va tutto bene, un demone colpisce Prue e Piper ma fortunatamente Phoebe fa a tempo a chiamare Leo per poterle guarire. Il problema è che mentre Phoebe è negli inferi da Cole, le altre due sorelle vengono scoperte da alcuni giornalisti che assediano la loro casa per vedere le streghe.
Una manifestante spara a Piper, che muore. L'unico modo per riportare in vita Piper ed evitare che tutti conoscano il segreto è tornare indietro nel tempo, il problema è che dovranno scendere a patti con un demone per farlo.
Phoebe si sacrifica rimanendo negli inferi ma chiede a Tempus di lasciare che Cole avvisi Piper e Prue del pericolo in modo che Leo possa soccorrerle come era veramente successo.
Putroppo Tempus ha intenzione di uccidere Phoebe e di far riavviare il tempo senza che nessuno avvisi Piper (ferita gravemente) e Prue, che purtroppo non sopravvive all'attacco.
Anche nella terza stagione le sorelle ottengono nuovi poteri: Prue mantiene i suoi poteri di spostare gli oggetti e la proiezione astrale; Piper oltre a bloccare il tempo ora può anche far esplodere le cose; Phoebe in aggiunta alle premonizioni ha imparato anche a volare.
sabato 6 maggio 2017
FILM: Sing Street
Titolo (originale): Sing Street
Regia e sceneggiatura: John Carney
Produzione: Irlanda, 2016
Genere: drammatico, musicale
Ambientazione: Dublino, anni '80
Cast: Ferdia Walsh-Peelo, Mark McKenna, Jack Reynor, Lucy Boynton, Maria Doyle Kennedy
Anni '80, Dublino. Conor ha 14 anni quando i genitori comunicano ai figli di avere problemi economici, per far fronte alle difficoltà dovranno trasferire il figlio in una scuola meno costosa, puntando tutto sull'istruzione dell'unica figlia femmina che si sta laureando in architettura. Conor poi ha anche un fratello maggiore, nullafacente, che gli impartisce lezioni di vita e lo porta ad essere tutto ciò che lui non è stato.
La nuova scuola è un istituto cattolico dove Conor farà presto i conti con il bullismo da parte di compagni e degli stessi professori. Per fortuna non tutti i mali vengono per nuocere, ben presto conoscerà degli amici che formeranno poi una band, per fare colpo su Raphina, 16enne orfana che abita in un istituto femminile di fronte alla scuola cattolica maschile.
Presentato al Sundance Film Festival già nel gennaio 2016, venne distribuito in Irlanda e UK a marzo. In Italia viene presentato alla Festa del Cinema di Roma per poi uscire al cinema il 9 novembre 2016.
La distribuzione è stata però piuttosto limitata, io per esempio ero stata molto incuriosita dal trailer ma non ho fatto in tempo a vedere Sing Street al cinema per il brevissimo periodo di programmazione in una sola sala della mia città.
Ho avuto modo di recuperarlo per conto mio a gennaio 2017 e da inizio anno l'ho riguardato più volte, ormai posso dire di essere certa che sarà uno dei miei film preferiti dell'anno.
Senza dubbio si tratta di uno dei film indipendenti del 2016 che è spiccato di più, tanto da essere nominato come miglior film musicale agli scorsi Golden Globe, pur non vincendo. Nonostante questo è stato un bellissimo traguardo per questa produzione tutta irlandese con un cast eccezionale, del quale mi sono innamorata all'unisono.
Attraverso le singole vicende dei personaggi o anche alle tematiche che pervadono tutta la storia (cattolicesimo decadente, disoccupazione, matrimonio/divorzio...), l'affresco generale di Dublino anni '80 ne risulta ben distinto. La colonna sonora varia di pari passo con le mode in fatto di abiti e di pettinature; Conor viene istruito dal fratello sulle diverse correnti e generi musicali del periodo a cui ispirarsi per comporre musica, per cui il suo stile si trasforma spesso, in cerca di una nuova identità.
Menzione super-speciale va alla colonna sonora, in particolare ai brani originali composti per essere eseguiti dalla band di Conor, Eamon & co.
Sono sicura che questo sarà uno dei migliori film che vedrò quest'anno, posso dirlo con sicurezza siccome da quando l'ho scoperto l'ho già visto più volte e ho ascoltato la colonna sonora in loop.
Non potete perdervelo, non esiste persona che l'abbia disprezzato!
Regia e sceneggiatura: John Carney
Produzione: Irlanda, 2016
Genere: drammatico, musicale
Ambientazione: Dublino, anni '80
Cast: Ferdia Walsh-Peelo, Mark McKenna, Jack Reynor, Lucy Boynton, Maria Doyle Kennedy
Anni '80, Dublino. Conor ha 14 anni quando i genitori comunicano ai figli di avere problemi economici, per far fronte alle difficoltà dovranno trasferire il figlio in una scuola meno costosa, puntando tutto sull'istruzione dell'unica figlia femmina che si sta laureando in architettura. Conor poi ha anche un fratello maggiore, nullafacente, che gli impartisce lezioni di vita e lo porta ad essere tutto ciò che lui non è stato.
La nuova scuola è un istituto cattolico dove Conor farà presto i conti con il bullismo da parte di compagni e degli stessi professori. Per fortuna non tutti i mali vengono per nuocere, ben presto conoscerà degli amici che formeranno poi una band, per fare colpo su Raphina, 16enne orfana che abita in un istituto femminile di fronte alla scuola cattolica maschile.
Presentato al Sundance Film Festival già nel gennaio 2016, venne distribuito in Irlanda e UK a marzo. In Italia viene presentato alla Festa del Cinema di Roma per poi uscire al cinema il 9 novembre 2016.
La distribuzione è stata però piuttosto limitata, io per esempio ero stata molto incuriosita dal trailer ma non ho fatto in tempo a vedere Sing Street al cinema per il brevissimo periodo di programmazione in una sola sala della mia città.
Ho avuto modo di recuperarlo per conto mio a gennaio 2017 e da inizio anno l'ho riguardato più volte, ormai posso dire di essere certa che sarà uno dei miei film preferiti dell'anno.
Senza dubbio si tratta di uno dei film indipendenti del 2016 che è spiccato di più, tanto da essere nominato come miglior film musicale agli scorsi Golden Globe, pur non vincendo. Nonostante questo è stato un bellissimo traguardo per questa produzione tutta irlandese con un cast eccezionale, del quale mi sono innamorata all'unisono.
Attraverso le singole vicende dei personaggi o anche alle tematiche che pervadono tutta la storia (cattolicesimo decadente, disoccupazione, matrimonio/divorzio...), l'affresco generale di Dublino anni '80 ne risulta ben distinto. La colonna sonora varia di pari passo con le mode in fatto di abiti e di pettinature; Conor viene istruito dal fratello sulle diverse correnti e generi musicali del periodo a cui ispirarsi per comporre musica, per cui il suo stile si trasforma spesso, in cerca di una nuova identità.
Menzione super-speciale va alla colonna sonora, in particolare ai brani originali composti per essere eseguiti dalla band di Conor, Eamon & co.
Sono sicura che questo sarà uno dei migliori film che vedrò quest'anno, posso dirlo con sicurezza siccome da quando l'ho scoperto l'ho già visto più volte e ho ascoltato la colonna sonora in loop.
Non potete perdervelo, non esiste persona che l'abbia disprezzato!
LIBRO + FILM: Il Cerchio / The Circle
Titolo: Il cerchio
Titolo originale: The circle
Autore: Dave Eggers
Pubblicazione: 2013 (Italia 2014)
Titolo originale: The circle
Autore: Dave Eggers
Pubblicazione: 2013 (Italia 2014)
Sentivo parlare di questo libro fin dalla sua uscita italiana nel 2014, e soprattutto quando per il Natale di quell'anno era stato regalato a mio papà, l'ho voluto leggere (prima o poi). Inizialmente avevo rimandato perché lo stava leggendo lui ma ho finito per accantonarlo e quasi dimenticarmene fino al mese di Aprile 2017 (quando finalmente l'ho letto, giusto in tempo per l'uscita del film). In realtà c'è stato un "evento" che ha piuttosto influito nel ritardo di questa lettura - non trascurabile - e cioè che nel 2015 ho letto il mio primo libro, e finora unico, di Dave Eggers e non mi era piaciuto. Si trattava di L'opera struggente di un formidabile genio del 2000, primo romanzo di questo autore che avevo trovato pretenzioso e autoreferenziale in modo fastidioso, proprio anche quando questi due tratti erano voluti, in un romanzo appositamente provocatorio. Tutto questo mi aveva ormai fatto passare la voglia di leggere Il cerchio ma ormai è passato ben più di un anno e ho deciso che dovevo andare avanti, perché se volevo leggerlo l'avrei dovuto fare prima di vedere il film.
Il libro non è diviso in capitoli ma solo in paragrafi e quindi la lettura scorre molto veloce, anche grazie all'aspetto snello e fresco dell'edizione molto curata (Mondadori) e con un design di copertina davvero accattivante.
Si tratta dell'ormai decimo lavoro di nonfiction pubblicato dall'autore statunitense.
La protagonista, una giovane impiegata di nome Mae Holland, è alquanto delusa dal suo noioso lavoro quando viene contattata dall'amica Annie Allerton per un posto di lavoro nel fantomatico "Cerchio". Si tratta di un'azienda all'avanguardia per la quale chiunque sogna di lavorare e incredibilmente Mae ne entra a far parte in un batter d'occhio, grazie all'importante posizione della sua amica.
Molte pagine vengono spese per descrivere quello che è l'iniziale lavoro di Mae al Cerchio e quali sono i suoi doveri anche in campo social e nel tempo libero (sì, avete letto bene, ci sono anche dei doveri nel tempo libero). Questa parte iniziale potrebbe risultare un po' lenta e sovrabbondante ma tutto sommato lo stile che Eggers adotta per raccontarcelo contribuisce a far crescere nel lettore un certo senso di oppressione, che ha una ragion d'essere.
Conosciamo man mano i diversi colleghi di lavoro, tra cui anche Francis e Kalden, i due interessi sentimentali della protagonista - il primo un po' ambiguo e il secondo decisamente misterioso.
Parallelamente a tutte le importanti e invadenti invenzioni nate nel Cerchio e alle quali Mae e i suoi colleghi contribuiranno, si snodano anche vicende della vita personale della protagonista, come il rapporto con i genitori e con il suo ex Mercer. Anche i rapporti con queste persone però ben presto finiranno per entrare a far parte della vita tecnologica e perennemente online dei dipendenti del Cerchio e di migliaia di persone sparse per il globo.
Ho voluto lasciare sul vago la descrizione generale della trama per potermi ora addentrare in ciò che può essere considerato spoiler (siete avvisati)!
Dopo una prima parte descrittiva e lenta, anche se ben scritta e piuttosto "pulita", Dave Eggers ci porta nel turbinio delle vicende interne al Cerchio: dall'episodio con il kayak che porta alla trasparenza di Mae, al mistero di Kalden, l'incidente con i genitori e il conseguente oscuramento delle loro telecamere, la morte di Mercer, la crisi e il crollo di Annie. Sono tutti episodi ben progettati e calibrati in modo giusto che vengono inseriti al tempo giusto e hanno tutti un loro scopo preciso. Quando sono arrivata a questo punto del romanzo ero soddisfatta da quello che stavo leggendo però ero anche un po' preoccupata perché vedevo che la terza e ultima parte del libro contava ormai ben poche pagine. Se c'è una cosa che odio e che ultimamente mi è successa più di qualche volta, è quando una storia lunga si risolve in un paio di pagine con una conclusione che sembra "molto rumore per nulla". Temevo che sarebbe stato così anche in questo caso, e in parte avevo ragione. In parte perché quando verso la fine c'è stato il gran colpo di scena dove scopriamo che Kalden è proprio il misterioso terzo uomo dei "Tre saggi" (fondatori del Cerchio) rimaniamo un attimo spiazzati e tutto assume un senso, la mente da cui tutto era partito vuole fermare un destino sbagliato prima che sia troppo tardi e voleva servirsi di Mae (perché con SeeChange ed eventi recenti, aveva parecchia visibilità). Fin qui tutto bene. Ci sta anche il finale con Mae che decide di fingersi d'accordo con Kalden/Ty per poi in realtà proseguire in quello che ormai è un lavaggio di cervello per lei. Sono d'accordo e ho anche apprezzato che non sia stato scelto un lieto fine, ho trovato veramente d'effetto la scelta di chiudere tutto con il pensiero di Mae sul diritto di conoscere cosa sta pensando l'amica in coma. Fa riflettere ed è perfettamente funzionale a quello che (sono sicura, questa volta) era l'intento di Eggers con quest'opera. L'unica parte che mi lascia perplessa è il ruolo di Ty, e anche di Francis, in tutto questo. Credo che Francis poteva essere direttamente tagliato via in toto perché perfettamente inutile e che l'autore già che c'era poteva anche trovare un destino un po' più degno per Ty. Non è molto credibile che dopo tutto questo polverone egli viene semplicemente relegato in un angolino e continui ad andare avanti come se nulla fosse.
Molti lo hanno definito un semplice romanzo di genere, che calca la falsa riga di grandi distopici del passato come Brave New World e 1984. Altri l'hanno criticato per aver portato avanti una demonizzazione di colossi come Google (ad esempio, dal quale trae grande ispirazione) senza però fornire prove realistiche.
Il mio giudizio finale sul libro è quindi positivo, pur non essendo entusiasta. Credo che sia un'opera interessante e ben strutturata, anche lo stile di scrittura e la costruzione della trama mi hanno soddisfatta (fatta eccezione per qualcosa nel finale, come detto sopra). Poteva quindi essere migliore con poco ma nel complesso la consiglierei, anche se non lo ritengo uno dei libri più importanti degli ultimi anni e probabilmente chiunque può benissimo continuare a vivere anche senza averla letta. Non nego che offra interessanti spunti di riflessione, anche se non è unico nel suo genere, le tematiche sono trattate e ritrattate, seppur allarmanti e con una dose di possibile realtà.
Titolo (originale): The Circle
Regia: James Ponsoldt
Produzione: USA, 2017
110 min. colore, sonoro
Genere: drammatico, thriller, distopico
Cast: Emma Watson, Tom Hanks, John Boyega, Karen Gillan, Ellar Coltrane, Bill Paxton
Poco più di una settimana dopo aver terminato la lettura del romanzo, sono andata al cinema a vedere il film omonimo appena uscito. L'attesa era iniziata già da quando era stato annunciato, alla fine del 2015 (riprese iniziate nel 2015!) era da un bel po' che si faceva attendere.
Partiamo dalle mie aspettative, cosa forse sbagliata, ma devo dire che stranamente non ne avevo. Sicuramente ero molto curiosa però dopo aver visto il trailer non sapevo cosa aspettarmi, anche se dai nomi del cast ero stata rassicurata.
La prima parte del film (quella più o meno corrispondente alla prima sezione del romanzo) è scorsa via veloce, ma già iniziavo ad avere le mie perplessità. Innanzitutto non ho ancora capito perché non abbiano mantenuto il mistero di Kalden invece che svelarlo alla fine con il colpo di scena che nel libro faceva molto effetto. Pensando che magari gli sceneggiatori (lo stesso regista e lo stesso Eggers) avevano i loro buoni motivi ho cercato di non restarne troppo delusa, e mi ha consolato anche il fatto che avessero eliminato del tutto Francis, il personaggio più inutile della storia. A lasciarmi più perplessa però non è stata una di queste scelte riguardo ai personaggi, bensì la sensazione che il pubblico ha avuto fin da subito che il Cerchio era un autentico incubo. Il libro funzionava perché Eggers faceva sembrare tutto fantastico, ideale ed utopico nelle prime pagine e solo in un secondo momento - e gradualmente - nella mente del lettore cominciavano a destarsi i primi sospetti.
Il personaggio di Kalden e il mistero che portava erano essenziali per far sì che si realizzasse questo crescendo e per instaurare nello spettatore il dubbio: "Forse non è tutto oro quello che luccica, e forse questo misterioso collega non è altro che una spia? o sarà invece un sovvertitore dall'interno?"
Già mezza delusa dalla falsa partenza del film, mi sono consolata con la parte centrale che corrispondeva abbastanza al romanzo, fatta eccezione per qualche omissione, ma nulla di grave.
Annie e il suo esaurimento (senza essere portato alle estreme conseguenze), l'incidente con la canoa e quindi la scelta di Mae di diventare trasparente, le questioni con i genitori e la morte di Mercer, il rapporto con i fondatori e la netta superiorità di Eamon Bailey.
I fondatori vengono presentati sempre con un'aura di cattiveria - cosa che non avevo percepito nel libro - che ho trovato sbagliata ai fini del messaggio: in fondo loro credono veramente nel progetto del Cerchio, come anche Mae, non lo fanno per diventare i padroni del mondo, o meglio, lo diventano ma indirettamente. Credono fin troppo in queste loro idee pericolose ma la pericolosità secondo me stava proprio nel fatto che i suoi sostenitori credano che sia positiva, che faccia del bene. Nel film invece i fondatori apparivano fin da subito come gli antagonisti della situazione.
Alla fin fine anche Mae non ha una vera evoluzione come nel romanzo, resta sempre un personaggio poco approfondito - cosa che era anche nel libro, e credo intenzionalmente - ma è stato usato male. Dave Eggers aveva definito un percorso preciso per Mae all'interno della storia ma anche per questo aspetto l'adattamento cinematografico è un susseguirsi di occasioni sprecate e bruciate. Avrebbe tranquillamente potuto essere meglio del libro ma fin dall'inizio era chiaro che non lo sarebbe stato.
Posso dire con certezza che questo techno-thriller è stato molto fumo e niente arrosto e mi sembra molto strano che uno dei due sceneggiatori fosse proprio l'autore del soggetto, ha decisamente sprecato un'occasione per migliorare il suo lavoro.
L'altro sceneggiatore è il regista stesso, questo mi fa pensare che nemmeno lui abbia avuto un'idea precisa di partenza, sembra che si sia deciso tutto in corso d'opera e non ha molto senso quando scrivi a quattro mani con l'autore del soggetto! Non riesco a capire cosa possa essere andato storto e sto ancora cercando sul web interviste che spieghino qualche falla nel sistema, forse c'è stato un problema di cui non sono a conoscenza.
Parliamo infine della conclusione. Nel romanzo la frase finale con Mae convinta che il mondo abbia il diritto di sapere cosa succede nella testa di Annie in coma, non solo era d'effetto ma era la chiusura giusta ai fini del messaggio che si voleva dare. Sapevo che non sarebbe stato così anche nel film perché Annie non era in coma e Kalden era stato svelato fin dall'inizio. Avevo sperato quindi che, essendosi bruciati due occasioni fantastiche, avessero fatto ricorso a qualche altro finale ad effetto, e invece niente. Mae sembra per un attimo vendicarsi mettendo le telecamere SeeChange ai fondatori ma poi capiamo che in fondo l'ha fatto solo per totale fiducia nel progetto. Va bene, tutto sommato era questo anche il succo del finale nel romanzo, ma la forza è 10 volte inferiore.
Un valanga di occasioni sprecate, anche nella scena di Mae che esce dalla porta e viene invasa dalla luce, dopo che tutta la sala era piombata nel buio (scelta sbagliata a mio avviso quella battuta "siamo fottuti"... ma come? non erano loro che credevano veramente nel progetto?) e il pubblico faceva luce con gli schermi dei telefoni.
Giudizio finale: meglio il libro a questo punto, anche se il film sarebbe potuta essere un'occasione di facile miglioramento. Queste occasioni se l'è bruciate tutte fin dall'inizio e quando pensi che si sia risollevato, cade di nuovo. Il problema è che non ci sono vere e proprie scelte sbagliate nell'adattamento ma sembra quasi che non ci siano del tutto. E' un lavoro irrisolto, incompleto, tutto rimane solo in superficie dall'inizio alla fine e anche l'ultima scena è l'apoteosi dell'insipido.
Stilisticamente non era neanche male: molto pulito a partire dal montaggio, passando per la fotografia, arrivando ai movimenti di macchina (anche se qualche movimento della testa di Emma Watson durante gli over-the-shoulder mi iniziava a dare sui nervi).
La scenografia, i costumi e il trucco-parrucco (per questi ultimi mi riferisco soprattutto alla protagonista) erano veramente molto curati nella loro essenzialità. Il problema è che forse proprio perché essenziali e asettici, attiravano tutta l'attenzione sulla mancanza di fatti concreti.
Menzione anche alla colonna sonora di Danny Elfman e al design dei titoli di coda che ho apprezzato e trovato molto eleganti.
Non penso che la colpa risieda nel cast che è stato scelto piuttosto bene. Karen Gillan interpreta Annie Allerton, Ellar Coltrane nei panni di Mercer, Patton Oswald è il fondatore Stenton. Anche per i genitori di Mae ho trovato molto adatti Glenne Headly e il defunto Bill Paxton. John Boyega è sprecato per la parte di Ty, ma probabilmente perché anche il suo personaggio è sprecato.
Veniamo infine ai due super protagonisti: Emma Watson e Tom Hanks, perché mi viene da pensare che se non fosse stato per loro - e per chi come me ha letto il libro prima - il pubblico sarebbe stato dimezzato.
Nonostante tutto, sono d'accordo anche con chi l'ha definito "una critica mainstream dei social media" parole testuali di John DeFore del The Hollywood Reporter. Non posso dire di ricordarlo come nulla di più.
venerdì 14 aprile 2017
FILM: Freaks
Titolo (originale): Freaks
Produzione: USA, 1932
Regia: Tod Browning
b/n, sonoro, 64 min.
Cast: Wallace Ford, Leila Hyams, Olga Baclanova, Harry Earles, Schlitzie, Koo Koo
Produzione: USA, 1932
Regia: Tod Browning
b/n, sonoro, 64 min.
Cast: Wallace Ford, Leila Hyams, Olga Baclanova, Harry Earles, Schlitzie, Koo Koo
Cult indiscusso e sempre incluso nelle liste di "film da vedere" non c'è dubbio dell'importanza e dell'unicità che Freaks ha tuttora nella storia del cinema.
La particolarità speciale di questo film è che non solo tratta il mondo del circo e le persone che ci lavorano ma è realmente interpretato dai reali "fenomeni da baraccone" e appunto "freaks" che sono effettivamente esistiti e dei quali possiamo trovare notizia.
Penso sia giusto identificare questa pellicola come la capostipite del genere horror perché ad oggi è uno dei film più grotteschi che io abbia mai visto, e teniamo conto del fatto che è uscito nel 1932!
Il tratto che più viene apprezzato e riconosciuto a Freaks non è però il grottesco, o meglio, non si limita a questo; ciò che più salta all'occhio è la luce sotto la quale ci vengono presentati questi "mostri" che combattono (a ragione) contro la normalità e la vincono, ma lo spettatore ne è felice!
All'epoca l'opera di Tod Browning non venne apprezzata, anzi si cercò in tutti i modi possibili di smorzarne la distribuzione, con tanto di censura e tagli non da poco; il regista stesso ebbe la carriera segnata a vita. Solo molti anni più tardi venne effettivamente riscoperto come film di culto e a rivederlo nel 2017 ci si chiede come possa essere stato figlio del 1932 (siamo alla fine della pre-code Hollywood, è vero, ma queste tematiche sorpassano ogni limite anche della prima fase del sonoro piuttosto liberale) fatta eccezione per l'ambientazione del "freak show" che oggi risulterebbe fuori luogo.
Vi invito a cercare di cosa trattassero le scene che sono state - purtroppo - eliminate e andate perdute per sempre, questo sarebbe tranquillamente potuto essere il film più forte mai prodotto nella storia del cinema!
Tutto sommato però il vero motivo per il quale venne così ostacolato all'epoca fu proprio il ruolo che i freaks avevano nella storia, ritratti per quelli che erano senza dubbio, visto che erano anche nella realtà dei fenomeni da baraccone e non per forza tutti hanno giudicato male il loro sfruttamento; cercando testimonianze sul web potrete leggere le loro memorie e capire come questi inconcepibili show fossero per loro l'unica cosa al mondo che li facesse sentire accettati, l'unico senso alla loro esistenza. Lo spettatore viene fatto identificare con i freaks, a fare il tifo per loro, questo era assolutamente inaccettabile anche per la stessa società che poi pagava il biglietto per assistere ai freak-show.
Dobbiamo aspettare appena gli anni '60 per veder tornare la pellicola nei circoli underground giovanili che ricominciano a proiettarla, trovando una nuova identificazione con il messaggio spaventoso, agghiacciante, ma tutto sommato soddisfacente per lo spettatore.
We accept her one of us, google gobble, gobble gobble!
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